Fuga nel regno del cinema
"Il cinema è dominato da vecchie idee; schiacciato dal potere della televisione rischia di diventare elitario. Io credo fortemente nella rivendicazione della forma e nel primato dell'immagine.". Basterebbero queste due righe, fedele trascrizione di un concetto che Marco Bellocchio ha espresso con chiarezza esemplare durante l'incontro con la stampa di presentazione del film, per raccontare il suo Il regista di matrimoni.
E invece no, pensandoci bene non bastano queste parole. Non rappresentano pienamente il giusto tributo ad una pellicola di esemplare bellezza e di enorme valore teorico ed estetico; uno dei film più compiuti di un autore pieno, un outsider lucidissimo del nostro pazzo e disperato cinema italiano. Il regista di matrimoni è contemporaneamente la messa in atto coerente e riuscita del concetto espresso in apertura, quanto un poderoso sguardo sulla realtà attraverso una sintesi contenutistico-formale astratta, visionaria, esaltante. È l'approdo del cinema di Bellocchio, il raggiungimento di una consapevolezza estetica sorprendente e probabilmente definitiva. Un grido di allarme potente e rabbioso, evocativo ed onirico sull'inferno di una quotidianità nulla, irraccontabile ed irraggiungibile.
C'è un uomo in crisi. Si chiama Franco Elica (Sergio Castellitto) ed è un artista: un regista segnato dalle sue scelte, da un rapporto smarrito con la figlia e dalla perdita di senso del vivere. Il suo adattamento dei Promessi Sposi è in pre-produzione, ma su di lui incombono accuse di violenza sessuale e una chiara aria di boicottaggio. È tempo di fuga in Sicilia. Un matrimonio su una spiaggia sarà il punto di partenza di una rinascita, il motivo per rimettersi in discussione, mentre un suo collega regista, ossessionato dai premi, si finge morto - perché in questo Paese comandano i morti - per ottenere il suo agognato David di Michelangelo (il Donatello meta-cinematografico di Bellocchio). Intanto un principe alla ricerca dell'antico status perduto gli commissiona la regia del matrimonio d'interesse di sua figlia Bona di cui Franco si innamorerà.
Fotografato splendidamente da Pasquale Mari ed avventurosamente musicato da Riccardo Giagni (da applausi il pregnante connubio tra l'inquietante commento sonoro e il repertorio classico e contemporaneo) il film vive su una straordinaria dimensione altra garantita dal potere di una messa in scena affilatissima e dal sensazionale montaggio sospeso di Francesca Calvelli (una gigante assoluta, la Thelma Schoonmaker italiana). Bellocchio filma con irruenza e trasporto un'Italia patetica, reazionaria e provinciale, rifiutando qualsiasi didascalismo o banalità ed indagando una crisi con il linguaggio della crisi, integrando forme e contenuti con una lucidità ragguardevole. Il cinema diviene così il mezzo attraverso il quale il regista italiano prende una posizione di straordinaria intransigenza. Filmando ed indagando la soglia tra il visibile e l'invisibile cinematografico, tra il fuoco ed il fuori fuoco, tra il sogno e la realtà, Bellocchio restituisce alla visione quello scarto fondamentale che rende ancora unica l'esperienza cinematografica. Ma è solo una fuga irreversibile, ad occhi chiusi ben spalancati.