Durante il Secondo Dopoguerra una delle prerogative della letteratura novecentesca era quella di ideare generi, sottogeneri e spunti vari ed eventuali, mossi dalla voglia di creare una discussione interna allo sviluppo del pensiero occidentale. Non c'era un nome specifico per questo tipo di scritto (poi qualcuno propose qualcosa come "colloquio fantastico postumo") che si traduce nell'invenzione di un dialogo fantasioso (perché non possibile nella realtà) tra due intellettuali dalle posizioni divergenti.
In Italia abbiamo avuto un grande esempio di questo affascinante genere durante la metà degli anni '70, quando la RAI produsse due stagioni di, appunto, "Interviste Impossibili", format curato via vai da grandi nomi dell'epoca, come Carmelo Bene, Italo Calvino, Umberto Eco e via discorrendo che immaginavano di interviste interlocutori come l'uomo di Neanderthal. Ecco, Freud - L'ultima analisi è, se vogliamo, una variante proveniente dalle medesima matrice creativa.
Non è un caso che la pellicola diretta da Matt Brown che immagina una conversazione immaginaria tra Sigmund Freud e C. S. Lewis su Dio e la religione cattolica, proviene dal mondo letterario, essendo adattamento dell'omonima pièce teatrale di Mark St. Germain, a sua volta tratta dal saggio The Question of God di Armand Nicholi. Quello che ne esce è infatti un ibrido tra teatro, cinema e parola scritta, riuscito soprattutto per le prove di Anthony Hopkins e Matthew Goode, anche se, come vedremo, non è detto sia proprio tutto quanto campato in aria.
Freud - L'ultima analisi: una spelonca nel deserto
Freud - L'ultima analisi, in quanto opera cinematografica, si basa sulla possibilità che quello studente di Oxford che si recò nella casa londinese di Sigmund Freud alla vigilia dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, quindi poche settimane prima che il padre della psicoanalisi si spense a causa del carcinoma della bocca che lo affliggeva fin dai suoi ultimi anni viennesi, fosse niente poco di meno che C. S. Lewis.
Un contesto semipossibile che però lascerebbe spazio ad una conversazione assolutamente stimolante tra due vissuti fatalmente differenti e due menti apparentemente inconciliabili. Freud, da una parte, era un uomo di metà '800, nato ebreo, ma fortemente agnostico in quanto scienziato a tutto tondo, mentre, dall'altra, Lewis era un letterato di fine secolo, convertito alla fede cattolica dopo la sua traumatica esperienza vissuta in occasione della Grande Guerra.
La casa dello psichiatra, ritratta nella nerissima data dell'invasione nazista della Polonia, diventa una "spelonca nel deserto" dove i due possono non solo dibattere su Dio, ma sulle loro idee nei riguardi della vita, della Storia, delle relazioni e della natura umana. Un sogno dentro la realtà, quindi il luogo (freudianamente) ideale dove poter riuscire a cambiare punto di vista su loro stessi. Evento che potrebbe essere utile non solo ai due contendenti, ma anche per il "terzo incomodo", la giovane Anna (Liv Lisa Fries), un satellite che gira intorno alla dimora e, di conseguenza, alla vita del padre.
Un dialogo di "impossibile" traduzione cinematografica
È francamente molto difficile (anche per la mente più brillante, fantasiosa ed esperta) pensare ad una traduzione fiction audiovisiva efficace di un dialogo che possa coinvolgere uno come Sigmund Freud. Basti dare un'occhiata al suo apporto epistolare con Einstein (tra l'altro brevemente citato). Viene da sé che un'operazione come quella di Freud - L'ultima analisi risultava affasciante ma complessa a dir poco.
Quello che fa Matt Brown è immaginare un'impostazione fortemente teatrale, mettendo da parte le argomentazione più cervellotiche e nozionistiche per dare un palcoscenico il più possibile sgombro ai suoi due tenori, anche a costo di abbassare il tono della discussione. Il format viene poi espanso grazie agli strumenti del cinema, che permettono di viaggiare istantaneamente indietro e avanti nel tempo, e dietro di esso viene posto il vissuto della figlia di Freud, sulla cui figura la conversazione finisce irrimediabilmente per piegarsi durante la conversazione più e più volte, fino allo svelamento della disfunzionalità del rapporto con il padre.
Lo schema di Freud - L'ultima analisi è quella di una seduta reciproca tra i contendenti, che si esaltano, soprattutto Anthony Hopkins, quando vengono messi in crisi. Il duo non brilla di un grandissimo feeling, ma la prova congiunta rimane fondamentale per la riuscita di una pellicola che altrimenti risulta abbastanza banale nella sua metafora del tramonto di un'era illuminata, ma piena di idiosincrasie, che deve prepararsi a lasciare il passo a ciò che di terribile sta per avvenire. Lo sa Matthew Goode, che infatti si mette al servizio del gigante con cui divide la scena e fa da ponte verso ciò che può positivamente indirizzare il futuro, strizzando così anche un occhiolino al nostro presente.
Conclusioni
Matt Brown tenta il colpaccio portando sullo schermo Freud – L’ultima analisi, tratto dal saggio, già pièce teatrale, di Armand Nicholi, che immagina un dialogo su Dio tra Freud e C. S. Lewis. Nel farlo recluta due pezzi da novanta come Anthony Hopkins e Matthew Goode e lascia loro il palco, puntando sulle interpretazioni per poi tentare la carta del rapporto padre – figlia. I due tenori sono bravi, anche se non si esaltano, e la chiosa contemporanea ci può anche stare, peccato che manchino spunti potenti e una discussione veramente impattante.
Perché ci piace
- Il sottotesto legato ad Anna Freud funziona.
- Ci sono un paio di momenti coinvolgenti nel dialogo.
- Le interpretazioni sono affascinanti…
Cosa non va
- … ma il feeling non esplode mai del tutto.
- La discussione è in generale piuttosto superficiale.
- Oltre la voglia di approfondire le figure, il film suscita poco altro.