Follemente, Genovese evolve il kammerspiel: com’è cambiato il genere in 100 anni

Dagli anni Venti agli anni... Venti. Cento anni di storia del cinema riassunti nel movimento del Kammerspiel, da Murnau a Polanski, fino agli esperimenti di Genovese, che superando il concetto di sfumatura dell'emozione ci porta dritti nel cervello umano.

Il cast del film di Paolo Genovese

Non banalizziamo FolleMente definendolo il live-action di Inside Out. Non se lo merita, ma soprattutto stiamo parlando di due prodotti diversi, destinati a due pubblici diversi e con finalità ben distinte tra di loro. Il film di Paolo Genovese porta il concetto di percezione delle sfumature nelle emozioni dei protagonisti a un livello superiore, ci trascina nel cervello di due persone diverse, di genere diverso, per sprofondare nelle loro psicosi, problematiche e nevrosi.

Se negli anni precedenti il regista romano aveva già dimostrato la sua vena passionale per il Kammerspiel, la recitazione da camera di memoria tedesca, con Follemente siamo dinanzi a una versione 2.0, perché da quel contenitore che era la camera, comunque confermata dalle scelte registiche, veniamo traslati in un universo ancora più profondo: il cervello.

Dalle idee di Ibsen a Murnau

Follemente Edoardo Leo Pilar Fogliati Foto
FolleMente: Edoardo Leo e Pilar Fogliati in una foto

Il Kammerspiel nasce dal teatro, più di cento anni fa: un'espressione recitativa che si attribuisce alla rappresentazione teatrale di Henrik Ibsen, uno dei maestri del teatro europeo, con i suoi Spettri; il drammaturgo norvegese, che nell'Ottocento aveva sviscerato le idiosincrasie della borghesia mettendola a nudo sul palcoscenico in tutte le sue brutture, aveva riunito le tre unità - luogo, tempo e azione - sul palcoscenico per esaltare il dettaglio sul volto dell'attore, chiamato a una interpretazione perfezionata, psicologicamente accurata.

Tutto ciò che è contorno svanisce, ponendo l'attenzione sul microcosmo che si genera direttamente tra l'inarcare delle ciglia e l'arricciare del naso dell'attore. La declinazione in ambito cinematografico arrivò in circa 20 anni, con L'ultima risata di Fiedrich Wilhelm Murnau, che nel 1924 andò a unire il movimento espressionistico al Kammerspiel: se in un primo momento le tecniche cinematografiche si mantenevano ben distanti tra di loro, con l'espressionismo che inseguiva inquadrature fisse, mentre il secondo metteva in scena un vero e proprio pedinamento dell'attore per carpirne qualsiasi mania, Murnau cercò e ottenne una crasi tra le due osservazioni.

Una scena di Nodo alla gola
Una scena di Nodo alla gola

L'evoluzione del genere è stata variegata, perché ogni regista ha avuto l'accortezza di provare a portare qualcosa di più al cinema da camera. Tra i più classici esempi troviamo Rope, in Italia noto come Nodo alla gola, il film del 1948 di Alfred Hitchcock, film che tra l'altro era composto da dieci piani-sequenza, con l'obiettivo di fare in modo che tutti sembrassero collegati tra di loro per non staccare mai la camera dagli attori. Il racconto di un omicidio sui generis si sviluppava interamente in un appartamento, il preferito dei luoghi del cinema da camera; un fil rouge che è stato raccolto e sfruttato anche da Roman Polanski con il suo Carnage (2011): concedendosi il lusso di evadere in maniera temporanea dal luogo della discussione, un appartamento di Brooklyn ricostruito diligentemente a Parigi, mostrandoci anche il pianerottolo e la porta dell'ascensore del palazzo.

Kate Winslet, Christoph Waltz, John C. Reilly e Jodie Foster riuniti intorno a un tavolo in Carnage.
Kate Winslet, Christoph Waltz, John C. Reilly e Jodie Foster riuniti intorno a un tavolo in Carnage.

Un modo per dire allo spettatore che esiste un mondo all'esterno, ma che alla camera non interessa del tutto. Tra La parola ai giurati di Sidney Lumet (1957) e Misery non deve morire (1990) di Rob Reiner, citiamo anche Quentin Tarantino, che seppur non abbia mai effettivamente ambientato un intero film in una sola camera si è sicuramente esaltato con The Hateful Eight, quando al termine della traversata della distesa innevata in carrozza ha rinchiuso tutti i protagonisti in una casa di montagna prima del massacro finale.

Le innovazioni di von Trier e Linklater

Nicole Kidman in una scena di Dogville
Nicole Kidman in una scena di Dogville

Gli esperimenti non sono mancati, soprattutto da parte di quei registi che nell'epoca moderna hanno saputo ritagliarsi uno spazio nel novero delle - appunto - sperimentazioni: Richard Linklater prima di Boyhood aveva fatto uscire al cinema Tape (2001), che oltre a svolgersi in tempo reale era tutto ambientato in una stanza di un motel; a un livello ancora superiore era andato Lars von Trier con il suo Dogville (2003), sperimentazione allo stato puro: la scenografia, in tal caso, per ricreare degli spazi interni aveva affidato a delle linee bianche i confini e i limiti di demarcazione.

FolleMente, recensione: Pilar Fogliati, Edoardo Leo e un (buon) film che gioca con i pensieri FolleMente, recensione: Pilar Fogliati, Edoardo Leo e un (buon) film che gioca con i pensieri

A chiusura di questa breve e confidiamo esaustiva lista poniamo Cena tra amici (2012) di Alexandre de La Patellière, film francese tratto da una piece teatrale e che mutuava le medesime ambientazioni e costruzioni sceniche del palcoscenico: contenzioso della vicenda, in tal caso, è il nome del futuro nascituro, che sembra destinato a chiamarsi Adolphe. Un dramedy che in Italia non abbiamo atteso a riprendere.

Il nome del figlio: Luigi Lo Cascio si diverte con Rocco Papaleo e Alessandro Gassman in una scena
Il nome del figlio: Luigi Lo Cascio si diverte con Rocco Papaleo e Alessandro Gassman in una scena

È di Francesca Archibugi il remake italiano de Cena tra amici, nella versione nota come Il nome del figlio (2015), con il nascituro pronto a chiamarsi Benito. È l'apripista per quello che accadrà l'anno successivo, in cui Paolo Genovese arriva al cinema con Perfetti sconosciuti (2016), il film che lo consacra al cinema italiano e che gli permette di essere ripreso in numerosi altri Paesi del mondo con remake su remake.

Il film, una critica a quelli che sono i tempi nell'era digitale, è stato reinterpretato 25 volte, stabilendo un record mondiale. Per la prima volta il regista romano si misura con una dimensione da camera, andando a interessarsi morbosamente alle reazioni dei suoi protagonisti, chiusi in una gabbia che assume le fattezze di una sala da pranzo. Una casa pronta ad accogliere le dicotomie delle coppie coinvolte, delle persone inficiate dalle loro manie e fobie, dalle loro vite segrete.

Le reinterpretazioni di Genovese

Perfetti sconosciuti: Alba Rohrwacher, Edoardo Leo, Giuseppe Battiston, Marco Giallini e Valerio Mastandrea in una scena del film
Perfetti sconosciuti: Alba Rohrwacher, Edoardo Leo, Giuseppe Battiston, Marco Giallini e Valerio Mastandrea in una scena del film

Di esperimento non si può parlare, ma di indubbia conferma di un genere che spogliandosi di costruzioni scenografiche e cambi di ambientazioni e location riesce a focalizzare l'attenzione sui dialoghi, sui sottotesti, sui movimenti e sulle mimiche. La lezione di Ibsen e di August Strindberg ritrova compimento negli spostamenti di macchina di Genovese, che ci riprova poco dopo con The Place, stavolta impostando l'intera vicenda nella sala di un ristorante dove un mefitico Valerio Mastandrea attende le sue vittime come un bieco mietitore, pronto a distribuire incarichi di pura cattiveria ai malcapitati. Non un successo al botteghino, al quale Genovese fa seguire due deviazioni sul tema, che evadono dal cinema da camera e lo conducono a Supereroi prima e poi a Il primo giorno della mia vita, entrambi votati all'emozione della vita e al desiderio di vedere compiute le proprie speranze, evadendo dalla costrizioni degli ambienti stretti e costretti.

Il ritorno al cinema da camera è di quest'anno, con Follemente, con il quale Genovese compie un ulteriore passo in avanti. Il film del regista romano non solo si concentra su un ambiente solo, l'appartamento di Pilar Fogliati, che decide di invitare a cena un sorprendentemente impacciato Edoardo Leo, non solo - ancora - torna a preoccuparsi della psicologia umana mettendo l'accento sulle minuzie dei volti dei due protagonisti, ma decide di mettere a nudo il cervello, che diventa la camera all'interno della quale raccontare la propria storia.

Follemente Scena
FolleMente: Vittoria Puccini, Maria Chiara Giannetta, Emanuela Fanelli in una foto

Quattro emozioni da un lato e quattro dall'altro, rispettivamente rinchiuse in ambienti angusti, costrittivi: da un lato Emanuela Fanelli ha come unico sfogo evasivo la possibilità di cambiare pouff e nient'altro, così come a Maurizio Lastrico viene concesso di rannicchiarsi tra la scrivania e l'archivio, in un vano tentativo di celare le proprie emozioni agli altri tre coinquilini. E mentre la videocamera incede su quel soggiorno fatto di poche ma decisive inquadrature, alle quali si aggiungono alcune riprese nella camera da letto e un paio di sguardi dall'alto verso l'ingresso del palazzo, le tre camere si intrecciano, creando una matrioska di ambienti.

Follemente genera così un kammerspiel 2.0, che ha poco a che vedere con Inside Out, che nella sua complessità espressiva ha creato un viaggio all'interno di un'emotività ben diversa, raccontata sotto una luce diversa, e ancor meno ha da dividere con Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere di Woody Allen, soprattutto perché Follemente soltanto in un breve segmento, per quanto significativo, si concentra sulle pulsazioni erotiche della coppia.

Follemente Foto Del Film
FolleMente

Per il resto le tematiche svariano nello spettro emotivo dell'essere umano, alla fine concedendo alle emozioni e ai sentimenti di evadere dalla loro gabbia ed esplodere nella camera principale dove va in scena l'intero film. Al di là di quello che sarà poi il giudizio finale, l'esperimento regisitco di Genovese, che non innova, non crea, non distrugge, ma evolve un linguaggio che in cent'anni ha saputo farsi declinare in tanti modi diversi, si presenta con un fare sagace e intelligente, dimostrando ancora una volta che il film è composto di regole, norme, ma tutto aperto e suscettibile di interpretazioni e declinazioni. Nelle mani sapienti dei registi, in questo caso di Paolo Genovese e la sue mente folle.