Aveva una bella sfida davanti a sé, il film di Baltasar Kormákur. Non una sfida pari a 8848 metri di roccia, ghiaccio e mille altre insidie, ma un'impresa, nel suo piccolo, spaventosa: quella di seguire cronologicamente due film inaugurali alla Mostra del cinema di Venezia della risma di Gravity di Alfonso Cuarón e di Birdman di Alejandro González Iñárritu. E viste le aspettative nei confronti del film di Kormákur, il budget ambizioso e il cast da sogno, non si era mancato di chiamare in causa precocemente i prossimi Academy Awards.
Difficilmente un'accoglienza fredda come quella che ha salutato la fine della proiezione del film dedicata alla stampa può preludere a un futuro tanto glorioso, anche se, da molti punti di vista, Everest funziona bene: spettacolo ed emozioni non mancano, ma per fare un grande film non bastano uno scenario d'effetto, interpreti prestigiosi e il fascino di una storia vera. Una storia bisogna comunque saperla raccontare.
La montagna che non perdona
Everest parte con le migliori premesse: introduce i suoi protagonisti in medias res, creando una certa tensione in particolare attorno a Rob Hall (Jason Clarke) e a Beck Weathers (Josh Brolin), e altrettanto sapientemente introduce il loro maestoso nemico: la montagna che i personaggi sfidano, chi per mestiere (Hall è stato un alpinista celeberrimo e le sue spedizioni - fino a quella fatale del maggio 1996, narrata nel film - erano tra le più "sicure") chi per sfuggire alla routine, chi per essere d'ispirazione agli altri, chi per amore del rischio. L'Everest, il monte più alto del mondo, è l'impresa impossibile per antonomasia: percorso e mappato, resta inconoscibile; conquistato, resta indomabile; silenzioso, "ha sempre l'ultima parola nella sfida con gli scalatori".
L'aspetto visivo e tecnico è sicuramente il punto di forza di Everest, girato per buona parte in location (ma per le vette montuose sono state utilizzate le nostre Dolomiti, per ovvie ragioni di sicurezza) con un uso il più possibile limitato degli effetti speciali, e la dedizione di interpreti e realizzatori è tangibile. Se la mano di Kormákur potrebbe essere più ispirata, fotografia e montaggio sono impeccabili e gli effetti sonori semplicemente formidabili.
Se Jon Krakauer c'è e non c'è
Il cronista e scrittore Jon Krakauer, il quale gode di una certa fama cinematografica per aver fornito, con il suo acclamato Into the Wild, il soggetto al bel film di Sean Penn, partecipò alla spedizione al centro di Everest e in seguito raccontò quell'esperienza in un altro ottimo racconto, Into Thin Air. Nel film la sua apparizione con il volto di Michel Kelly non è particolarmente significativa o utile ai fini dello sviluppo della trama, ma, conoscendo il suo lavoro, è inevitabile pensare che sarebbe stata forse una buona idea utilizzare anche per questo progetto i memoriali di Krakauer, dotato di una visione profonda e articolata del rapporto uomo-natura.
Non che il resoconto di Krakauer non sia tenuto presente dagli sceneggiatori. William Nicholson e Simon Beaufoy utilizzano dialoghi che provengono dal suo memoriale senza riuscire a sfruttare una testimonianza diretta così preziosa, senza fare proprie la sottigliezza e le riflessioni di un narratore di pregio. Così il film, conquistata la sua vetta, resta in superficie, ad esempio sfiorando elementi interessanti come lo sfruttamento e deturpamento dell'ambiente naturale, e glissando in maniera frustrante sul rapporto tra i due amici e rivali Rob Hall e Scott Fischer (interpretato da Jake Gyllenhaal) che aveva tutte le caratteristiche per poter figurare al cuore della narrazione.
In particolare il personaggio di Gyllenhaal, con tutto l'appeal del suo interprete, è uno degli evidenti punti deboli di questa sceneggiatura, che lo usa poco e male, finendo quasi per dimenticarselo nelle ultime battute. E in generale, il film s'indebolisce quando si allontana dalla prospettiva dei due personaggi più curati, i già citati Hall e Weathers, trasformandosi in un prodotto molto più banale quando abbraccia il punto di vista dei (forse troppi) personaggi secondari; il che dimostra che probabilmente un approccio più oculato e meno corale avrebbe giovato all'integrità della pellicola.
Le ragioni per scalare
Nonostante ci sia una scena in cui, letteralmente, Krakauer chiede ai suoi compagni di spedizione perché intendono scalare l'Everest, il film manca di ambizione e di ardimento soprattutto nella ritrosia a indagare queste ragioni: non si sforza infatti di dare al folle anelito di tanti scalatori l'umanità che lo renderebbe universale,comprensibile, prezioso, e che darebbe alla storia una risonanza diversa. Probabilmente il momento in cui più si avvicina a farlo è poco più di un fotogramma, è l'espressione del magnifico Jason Clarke nel momento in cui Doug Hansen, stremato dall'edema polmonare e a corto di ossigeno, lo implora di lasciarlo salire comunque fino alla vetta. Rob sa di stare facendo una follia; Doug è al limite e l'orario fissato per il rientro è passato abbondantemente; ma la sommità è lì a un passo, la gloria fuggevole di quella conquista è troppo dolce per negarla a quell'uomo che le ha dedicato tanti sacrifici. Così, per queste ragioni inconsistenti e romantiche si scalano le montagne; lo scaliamo perché l'Everest è lì e noi siamo vivi abbastanza da non poter resistere al suo richiamo.
Movieplayer.it
3.5/5