E tre. Speriamo che basti
È una questione di aspettative (anche). Insomma, dipende da cosa ci si aspettasse dal terzo capitolo di una saga cinematografica un po' (molto) sopravvalutata, che ha anche vissuto diverse traversie registiche: l'abbandono di Bryan Singer, quello successivo di Matthew Vaughn a produzione avviata, ed il subentrare di un nome non certo "pesante" come quello di Brett Ratner. Ecco: la regia, l'abbandono di Singer. Siamo proprio sicuri sia stato un male? Ché a chi scrive, Singer, sembra un regista anche lui un po' (molto) sopravvalutato.
Certo, questo X-Men: Conflitto finale non si distanzia poi molto da quanto fatto nei due capitoli precedenti dal regista de I soliti sospetti: e questo vale per i lati più riusciti così come per quelli negativi. Ratner non sarà un fulmine di guerra, ma qui ha perlomeno il merito di proporre una regia meno ponderosa, seriosa e intellettualistica (sì, avete letto bene) di quella di Singer. Per carità, ci sono eccome scivoloni, e anche grossi, ma nel complesso (e considerato l'approccio un po' cazzone di Ratner) perché infierire?
Quel che di positivo c'è in questo film (nella sua programmaticità, nella sua prevedibilità) è lo sfruttare due storyline che provengono direttamente dal mondo a fumetti degli X-Men e che esemplificano due vette in quel campo, due storie non solo assai interessanti ma anche molto moderne. La prima è la saga della Fenice Nera, la seconda viene da quelle storie di Astonishing X-Men firmate da Joss Whedon. Mescolate assieme, queste storyline puntellano il film di Ratner con una sceneggiatura dinamica, con un personaggio interessante come la resuscitata Jean Grey, forte anche dell'opportunità/necessità di mettere in scena i conflitti finali (?) del titolo.
Se questo vale per la superficie del film, il discorso si fa ben diverso e ben più complesso andando ad esaminare il cuore tematico del film, della serie cinematografico e del fumetto degli X-Men: ci riferiamo ovviamente alla metafora sul (diritto alla) diversità - ma sarebbe meglio dire "alla differenza". Perché questo film, che come e più dei suoi predecessori si vuol proporre come sorta di bandiera del progressismo contro-ogni-discriminazione (e a suo modo, in un'ottica del tutto funzionale alle strutture socio-culturalmente dominanti, lo è pure), è in realtà assai carente da questo punto di vista, per non dire di peggio. Nelle scelte proposte ai mutanti del film (la cura, il diventare "normali" o un'integrazione allineata e pecorona al modello dominante) c'è tutta l'arroganza del Sistema che vuole conciliare le differenze solo ed esclusivamente assorbendole, privandole non solo della loro positiva carica eversiva ma anche delle loro specificità.