True Detective, Twin Peaks e Lucio Fulci. Il mostro, le parole, il sangue. E l'acqua, elemento naturale di Damiano e Fabio D'Innocenzo. Dostoevskij non è solo un'opera crime, che sembra uscita dalla miglior letteratura di genere. È geografia che non esiste, è un'evocazione brutale e ossessiva. Un titolo che potete definire come volete: una serie, un film, un romanzo da vedere e ascoltare. Tutto giusto, non fa differenza: così è se vi pare. Per una volta niente etichette. Solo fermezza, visione, applicazione. Un'applicazione costante, che segue un racconto umido, nero e glaciale. "L'inverno di un uomo", diranno i fratelli D'Innocenzo, durante le interviste parallele all'anteprima della Berlinale, a proposito di Dostoevskij. Un'opera quarta che segue l'eccezionale America Latina, e come per America Latina, pure 'sta volta, i D'Innocenzo hanno scelto di sfidare il linguaggio, l'estetica, la narrazione. Addirittura, hanno scelto di sfidare il pubblico, mostrando il lato più estremo e fetido dell'anima.
Dostoevskij ha la capacità di andare oltre. Oltre la regia, oltre il luogo, oltre il cast, oltre la musica. Dostoevskij, minuto dopo minuto, lungo sei capitoli che insieme formano il miglior cinema possibile (quello che si sfida, e ci sfida), richiede sforzo emotivo e celebrale: bisogna stare dietro la storia, ma osservarla da lontano. Bisogna mantenere mezzo metro di distacco, perché solo così la prospettiva dell'opera può essere vista sotto la giuste luce e la giusta forma. Più di tutto, però, Dostoevskij, prima al cinema come evento speciale e poi su Sky e NOW, richiede la nostra massima attenzione. Se viviamo in un tempo distratto e distraente, a volte superficiale e immaturo, Fabio e Damiano D'Innocenzo ci ricordano quanto sia fondamentale lasciarsi andare al valore di una storia. E quindi, quanto sia importante prestare attenzione. Perché, più dell'opera (straordinaria) che è Dostoevskij, alla fine resta il valore dello storytelling, di cui i gemelli di Roma (i secondi più famosi in città dopo Romolo e Remo) sono assoluti fuoriclasse (e chi dice il contrario mente, o è invidioso).
Dostoevskij, le estreme conseguenze di essere vivi
E lo storytelling dei registi, almeno per quanto riguarda Dostoevskij, inizia già dalle note di regia: "le estreme conseguenze di essere vivi. Di questo parla la serie". Ma quali estreme conseguenze potranno mai scaturire dalla cosa più naturale di tutte? È qui che l'opera cambia volto, scendendo in un viaggio infernale e nichilista: un poliziotto, Enzo Vitello (Filippo Timi), una figlia Ambra (Carlotta Gamba) e l'ossessione malata per Dostoevskij, serial killer che sembra uscito dalla mente di David Fincher. Fuori, un mondo inospitale, crudo, cattivo. Un mondo incompiuto, che casca a pezzi. Un mondo infame, degradato e brutto. Oggettivamente brutto nella sua decadenza, di cui sia Enzo che "Dosto" sono le facce della stessa medaglia.
Sempre a Berlino, i D'Innocenzo ci diranno che il film/la serie, spinge a "Cercare la propria inclinazione semantica nei confronti della vita. Una direzione cercata da entrambi i protagonisti della serie: chi cerca, e chi viene cercato". In questo scambio, a favore di racconto, c'è qualcosa di molto fertile, che gli autori sanno adattare al meglio, accogliendo e respingendo il male a livello di narrazione e di immagini, ma dileguandosi dai paragoni perché altrimenti "non faremmo più nulla", spiegano ancora i registi durante la chiacchierata. Ed è palese l'estrema conseguenza della vita solo se si sceglie di vivere davvero, accettando di combattere i propri demoni. Così come Enzo sceglie di strozzare le sue storpiature, lasciandosi andare verso un percorso inverso e già scritto, che odora di morte e rancidità.
Il POV dello storytelling dei Fratelli D'Innocenzo
Il saper raccontare una storia, in fondo, non è una dote scontata, né alla portata di ogni regista che si reputa tale. Ancora più complicato, raccontare una storia come quella di Dostoevskij. Non tanto perché i registi, dopo tre film, hanno cambiato praticamente tutta la troupe (alla fotografia, acidissima, c'è Matteo Cocco, alla scenografia Roberto De Angelis, invece resta Walter Fasano al montaggio), ma perché le quasi sei ore di Dostoevskij sono in controtendenza rispetto ad ogni logica narrativa contemporanea, stretta nella tagliola dell'algoritmo, frutto delle logiche di mercato. Dall'inizio alla fine, le parole della sceneggiatura - quindi la loro applicazione visiva - mantengono la coerenza dei propri autori, senza che si pieghino mai alle regole moderne, "rendendo atipica" un'opera volutamente sbagliata rispetto ai dogmi asettici dello storytelling odierno (figuriamoci dello storytelling italiano).
È tutta qui la differenza sostanziale (quelli moderni lo chiamerebbero POV), con un discorso che si allargherebbe a La terra dell'abbastanza, Favolacce, America Latina: la capacità di Damiano e Fabio D'Innocenzo di puntellare le parole e le immagini, senza ammiccamenti né furbizie o ridondanze, ma giocando con gli opposti (tenerezza e ostilità, bellezza e bruttezza, fragilità e resistenza) che partono da un personalissimo punto di vista, sempre vivido e sempre originale, "accarezzando tutti i giorni come fosse un cane quelle cose che non ce l'hanno fatta", raccontano i registi nella nostra intervista. Anche per questo, Dostoevskij, tra il fango e il cielo in tempesta, "è qualcosa che non abbiamo mai fatto".