Scienza e crimine, filosofia e matematica, teoremi e simboli, amori e delitti, verità e apparenza, humor nero e thriller psicologico, logica e sentimenti: connubi azzardati, che a primo acchito possono sembrare tanto improbabili quanto inopportuni, tranne quando si parla del cinema di Aléx de la Iglesia. Dopo il grande successo ai botteghini spagnoli e francesi (il film è una co-produzione tra i due Paesi) arriva anche nelle nostre sale Oxford Murders - Teorema di un delitto il nuovo film del regista di Bilbao che per la prima volta si discosta da quel genere, la commedia grottesca, che sin dai primi anni '90 lo ha reso celebre nonché uno dei registi più amati e ammirati del cinema contemporaneo. Il primo film in lingua inglese (e con un cast non spagnolo) diretto dal regista di El dia de la Bestia è un avvincente crime-thriller con ambientazione alla Harry Potter e trama sullo stile de Il Codice da Vinci, dotato di grande fascino, di evoluzioni narrative e colpi di scena (soprattutto quello finale) davvero pregevoli. Ambientato nella piccola cittadina britannica famosa per il college e tratto dal pluripremiato omonimo romanzo giallo di Guillermo Martìnez (edito in Italia come La serie di Oxford), Oxford Murders ha come protagonisti un professore di logica della famosa Università (un grande John Hurt) ed un suo ammiratore, un giovane studente americano col pallino della matematica interpretato dal Frodo de Il Signore degli Anelli, un efficace Elijah Wood. Insieme i due dovranno risolvere un enigma assai intricato, innescato da un misterioso serial killer che lascia sulla scena di ogni delitto un indizio impercettibile, legato ai precedenti ed inequivocabilmente riconducibile ad una mente matematica.
In occasione della presentazione della pellicola, che uscirà nelle sale da venerdì 11 aprile in circa 100 copie, de la Iglesia e il co-sceneggiatore del film Jorge Guerricaechevarrìa sono approdati nella Capitale per raccontare ai giornalisti la genesi di un film tanto complesso quanto sofisticato.
Siamo di fronte ad un film molto diverso dai suoi precedenti, con poco humor nero e poco spazio per la commedia. Un'esigenza dovuta all'ambientazione britannica o solo voglia di cambiamento?
Alex de la Iglesia: Nulla di tutto questo, si tratta solo di aver tratto la sceneggiatura da un libro, cioè dal lavoro di qualcun altro. Ero abituato a scrivere da solo o insieme a Jorge (Guerricaechevarrìa, lo sceneggiatore del film, ndr) i miei film, qui non avrebbe avuto senso trasformare un romanzo giallo come questo in una commedia o aggiungere quel cinismo o quella cattiveria che metto di solito nei miei film. Ho dovuto attenermi al tenore dell'opera originale che ho deciso di trasporre e rinunciare a quel pizzico di egocentrismo che ha contraddistinto finora me e le mie opere.
Cosa vi ha attratto maggiormente del romanzo di Martinez?
Alex de la Iglesia: Il tradimento, l'inganno, la realtà distorta o in parte celata, l'identità ambigua di ogni personaggio. Tutti aspetti e caratteri presenti e ricorrenti nella mia filmografia. Mi intrigava particolarmente l'aspetto del 'gioco', il fatto che nessuno dei personaggi dice mai la verità fino in fondo e finge di essere la persona che non è.
Jorge Guerricaechevarrìa: Pur non essendo una commedia ma un giallo, la storia è comunque pervasa da un alone di grottesco, di menzogna, di mistero, un aspetto forse riconducibile all'ambientazione inglese. L'accoppiata delitti irrisolti-intrighi amorosi è sempre formidabile, per non parlare del gioco delle parti quando c'è da scoprire un assassino.
Un aspetto molto interessante che è riuscito a rendere benissimo con l'uso di piani sequenza e soggettive...
Alex de la Iglesia: Di solito è il regista che col suo Cinema gioca e si diverte con spettatori e personaggi usando il suo talento e i 'trucchi' di cui è a conoscienza. Qui è lo spettatore che partecipa al gioco e osserva in prima persona l'evoluzione dei protagonisti, li vede muoversi come pedine su una scacchiera. Per questo ho voluto usare una raffigurazione di Oxford e dei personaggi della storia che ricordasse proprio una sorta di partita a scacchi.
Un ritorno al classico in contrapposizione ai moderni e più efferati thriller polizieschi?
Alex de la Iglesia: I thriller mi piacciono molto ed il motivo è presto detto: essi riflettono l'andamento del mondo, sono la versione più bizzarra e realistica della vita. Un film poi è come un piccolo mondo chiuso su se stesso, un insieme di idee da manipolare e da narrare nei modi più disparati. Col cinema si può parlare di tutto, in generale o nel dettaglio, senza per forza sporcarsi le mani e la mente con la realtà che ci circonda, quella che viviamo quotidianamente.
Jorge Guerricaechevarrìa: Guardandoci in giro e vedendo tutte le serie tv poliziesche e i film sanguinolenti che vanno ora di moda, abbiamo deciso di dar vita ad un thriller pulito, che approfondisse aspetti più astratti che pratici senza mostrare le atrocità del caso. Ci affascinava il fatto che ogni accadimento, nella storia, aveva di fatto delle conseguenze a dir poco impreviste.
La Sua è dunque una fuga dalla realtà?
Alex de la Iglesia: Considero il thriller un po' come il western, un genere in cui spaziare ed in cui immaginare le cose più fantasiose perché non esiste un suo corrispettivo nella realtà. Sono due generi per lo più inventati, ma che proprio per questo ti permettono di lavorare sulla realtà in maniera più simbolica che concreta.
Quanto i numeri e il trattato filosofico di Wittgenstein, di cui parla a lungo nel film, hanno influenzato la sua carriera e la sua vita? Alex de la Iglesia: Del suo Tractatus logico-philosophicus avrò capito una o due frasi, forse solo l'inizio e la fine. Devo ammettere di averne letto solo un compendio ma alcuni dei principi in esso contenuti avrei dovuto seguirli alla lettera, come quello che recita «Tutto ciò che si può dire lo si può dire chiaramente. Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere». Una regola che personalmente non ho mai seguito perché nella vita ho sempre desiderato fare cose per le quali non avevo i mezzi necessari. Forse però questo aspetto mi ha aiutato a conferire al film quel pizzico di innocenza che fa sempre bene.
Crede all'esistenza di una verità assoluta?
Alex de la Iglesia: Non so se esista, non so neanche dove cercarla, so soltanto che non riesco mai a trovare una soluzione convincente agli intrighi che racconto nei miei film. Ho grossi problemi col famoso terzo atto. La mia opinione è che a forza di pensare se questa verità esiste o meno ci siamo distratti e forse essa ci è sfuggita da sotto il naso. L'abbiamo distrutta.
Una ricerca della verità che ricorda quella di Orson Welles in Quarto potere. E' stata una fonte d'ispirazione per Lei?
Alex de la Iglesia: Orson Welles è uno dei pochi, se non l'unico, che è riuscito nell'impresa di fare il film perfetto. Dopo Quarto potere la sua filmografia non ha fatto altro che citare, ricordare e imitare questo grande capolavoro senza più 'creare'. E noi cineasti moderni facciamo solo questo da decenni, ci limitiamo a riformulare, ripetere e riadattare le grandi idee di personaggi geniali come Welles. Non siamo altro che il riflusso del loro lavoro.