"Di certo erano anni felici, peccato che nessuno di noi se ne fosse accorto". Così uno dei protagonisti del nuovo film di Daniele Luchetti, Anni felici, in uscita nazionale il prossimo 3 ottobre (250 copie, distribuisce 01), racconta il senso di un'avventura intima e collettiva al tempo stesso, una storia che è il ritratto di una famiglia divisa dalle velleità artistiche del padre e dalla spinta all'indipendenza della madre, l'istantanea di una coppia 'pazza', la descrizione di un'Italia, quella degli anni '70, in cui la lotta per l'affermazione dei propri diritti e della propria libertà era attività quotidiana. Dopo Mio fratello è figlio unico e La nostra vita, il regista capitolino torna a focalizzarsi su un racconto familiare, ispirato alla storia dei propri genitori, per un lavoro in cui non è facile comprendere cosa sia verità e cosa finzione. Lo abbiamo incontrato questa mattina a Roma, assieme a tutto il cast della pellicola, che comprende Kim Rossi Stuart, Micaela Ramazzotti e Martina Gedeck.
Presentato all'ultimo Toronto International Film Festival, Anni felici narra dell'amore tra Guido, artista d'avanguardia, affascinato dalle sue modelle e Serena, la bellissima moglie che lo venera. L'uomo si sente imprigionato da una famiglia troppo oppressiva, mentre la donna, che non riesce a comprendere questo atteggiamento, si colpevolizza per il progressivo allontanamento del consorte. I figli, Dario e Paolo, assistono così alle furenti liti dei genitori, alle successive riappacificazioni e alla nascita di una relazione sentimentale tra Serena ed Helke, una gallerista tedesca che stravolge le certezze della donna e la porta a separarsi dal marito. Sullo sfondo, la rivoluzione sessuale e il radicamento del movimento femminista.
Daniele, Anni felici non è un'autobiografia, ma è certo un racconto molto vicino alla tua storia personale; per certi versi si tratta di un materiale denso, scottante. Quanto è stato difficile per te ricostruire il tuo passato?Il film comincia con la voce fuori campo che dice "questo sono io", ma nei titoli di coda si legge che i fatti sono immaginari, forse la verità sta nel mezzo tra questi due estremi.
Come è stato accolto da tua madre?
A mia madre il film è piaciuto molto, è solo preoccupata dalla reazione dei vicini di casa. A parte gli scherzi, le ho raccontato che avrei sempre rimarcato che parte della storia era stata ricostruita, ma lei ci ha sempre tenuto a dirmi che dovevo ritenermi libero di agire come meglio credevo, senza dover rendere conto a lei.
Com'era il tuo rapporto con tuo padre?
Era davvero stimolante, c'era molta complicità e mi spingeva sempre ad essere libero. In fondo questo film è un atto d'amore verso l'umanità dei miei genitori, per come hanno vissuto le loro passioni fino in fondo e per come, ad un certo punto, non lo abbiano fatto.
Kim Rossi Stuart: Non è facile incontrare di questi tempi proposte e film interessanti, perciò quando Daniele mi ha parlato del film sono stato felice; non mi sono certo lanciato a fare un'analisi del personaggio, mi sono fidato del regista perché il suo cinema mi è sempre piaciuto. Con lui abbiamo lavorato molto per rendere Guido meno monolitico. Mi sono sentito di fare proposte estreme di caratterizzazione per creare quei chiaroscuri giusti, cercando anche la comicità in certi momenti. Lo so che si dice sempre così, ma abbiamo girato talmente tanto materiale che c'era la possibilità di fare film diversi, dalla commedia spinta al dramma vero e proprio. Ed è stimolante per un attore provare stili diversi.
Come sei arrivato a Martina? Daniele Luchetti: La storia è un po' lunga. Il personaggio è diventato tedesco perché ricordo che quando avevo circa cinque anni, i vicini di casa dei miei nonni, a Fregene, avevano una baby sitter tedesca, bellissima e disinibita che si chiamava Helke; mia nonna addirittura prendeva a schiaffoni mio nonno quando lo sorprendeva a guardarla. Quel nome mi ha sempre portato alla memoria qualcosa di peccaminoso. Detto questo ho pensato subito a Martina perché i film che lei ha girato, da Le vite degli altri a Le particelle elementari, li ho sempre amati. E poi è una donna calda, accogliente, l'opposto della tedesca femminista e ideologizzata che in un primo momento emergeva dalla sceneggiatura, per questo era perfetta per interpretare colei che è stata in grado di ascoltare Serena per la prima volta.
Martina, per la seconda volta lavori con un regista italiano... Martina Gedeck: Sì, ed ero molto curiosa di confrontarmi con un regista che ho sempre stimato. Tutti i suoi film sono vivaci, ma possiedono una vivacità diversa. Questo, ad esempio, è un film sull'amore senza costrizioni e senza obblighi, mi ha dato l'opportunità di riflettere sul perché certi rapporti funzionino solo se si tiene l'altro agganciato. Inoltre era interessante vedere come una donna sia in grado di vivere un'altra vita e per me Helke simbolizza la libertà.Si pensa agli anni '70 come al periodo della libertà, ma secondo voi è davvero così? E che ricordo avete di quel periodo?
Kim Rossi Stuart: La libertà è qualcosa a cui aspiriamo tutti, è un moto che ci spinge a fare le cose, non riesco a collocarla solo in un determinato periodo storico. Di quegli anni ho qualche ricordo; ad esempio in giro vedevo un sacco di tossici, francamente non so che libertà potesse essere quella, e vedevo anche molta violenza, nascosta dietro al desiderio di una cosiddetta libertà.
Micaela Ramazzotti: Io sono nata nel 1979, quindi gli anni '70 erano già alle spalle. Lavorando sul set, però, una riflessione l'ho fatta; ho notato una differenza sostanziale nell'educare i figli. Oggi compriamo manuali e spesso in casa abbiamo dei piccoli imperatori, un tempo i capricci non erano ammessi e si beccavano botte. Forse è per questo che sono cresciuti bene i figli degli anni '70.
Per quanto riguarda matrimonio e famiglia, invece, in cosa notate la differenza rispetto a quegli anni?
Micaela Ramazzotti: Il matrimonio è una scelta esistenziale, romantica se volete, ci si sposava allora e anche adesso, forse rispetto ad allora adesso siamo più bigotti.
Kim Rossi Stuart: Io ero figlio di genitori separati ed era uno status inconsueto in quegli anni, oggi ci si sposa e ci si separa quasi come fosse uno sport. Forse il matrimonio e le unioni in generale hanno perso forza.
A proposito dei giovani interpreti, Samuel Garofalo e Niccolò Calvagna, sono stati bravissimi nei panni dei figli di Serena e Guido, come li hai diretti?
I bambini non si dirigono, non hanno la capacità di un attore adulto di interagire con te, li devi scegliere bene, questo sì. O devi trovare quelli simili al tuo personaggio oppure devi pescare quelli che lo sanno contraddire creativamente. Loro, li avete visti, sono già così.
Non hai partecipato al Festival di Venezia, ma hai preferito Toronto...
Sinceramente non mi sembra una scelta rivoluzionaria, ho solo provato a difendere la mia salute mentale. A Toronto le proiezioni sono più rilassate, il festival non è questione di vita o di morte; non ha prezzo avere la possibilità di uscire dall'albergo, fare una camminata, scambiare qualche parola con gli spettatori che sgranocchiano il pop corn. Certo, l'aria di Cannes e Venezia è sontuosa e solenne, c'è una ritualità sacro, ma avevo bisogno di un atmosfera più easy, soprattutto per questo tipo di film. Volevo essere anestetizzato.
Nel film dai grande spazio alla figura del critico d'arte che prima bastona tuo padre e poi lo premia con una recensione positiva. Quali erano i rapporti tra tuo padre e la critica? E per te che valore ha?
I rapporti tra mio padre e la critica sono stati incubo, non aveva coraggio di esporre, le opere rimanevano dentro casa, oppure venivano mostrate in posti impensabili; un giorno decise di fare una performance con la speranza di farsi vedere da Achille Bonito Oliva, conoscente di una nostra amica. Quell'evento fu caricato di così tante aspettative che se ne parlava come di un avvenimento risolutivo per la nostra vita. Dire che era emozionato è dire poco. Andammo nel suo studio di Trastevere pronti per la performance, ma il tempo passava e Bonito Oliva non si presentava. Fino a quando l'amica di mio padre confessò di non averlo mai contattato. Facemmo una performance in tre di cui conservo ancora qualche foto. Ero sorridente, ma in realtà volevo buttarmi nel Tevere. Quanto al rapporto con la critica cinematografica, credo che sia un'occasione mancata, mi manca questo dialogo importante; a volte so il pensiero di un critico su un determinato film solo dal numero delle stelle che gli mette. Mi auguro che ci sia un modo nuovo di dirsi le cose, insomma. Detto questo, penso di aver raggiunto una maturità tale da sopportare atrocità di tutti i tipi, ma so anche metterle da parte per recuperare l'istinto.
Parte integrante del film sono i filmini in Super8 che il giovane Dario gira, volevi rendere il tuo omaggio alla bellezza della pellicola?
La pasta della pellicola è l'immaginario del cinema, il digitale nonostante le sue ricchezze è una tecnologia nuova e immatura che ci fa ripensare il modo di fare cinema. Non so capacitarmi di come si stia buttando nell'immondizia un prodotto dell'ingegno umano, per ragioni commerciali.