Con l'avvento di Internet si sono moltiplicate le rivelazioni pubbliche sui disaccordi tra i registi hollywoodiani e le alte sfere della produzione/distribuzione: basti pensare a Edgar Wright che ha rinunciato ad Ant-Man pochi mesi prima dell'inizio delle riprese, o alla presunta estromissione di David Ayer dal montaggio finale di Suicide Squad. Negli ultimi mesi la questione ha raggiunto nuove vette, con due eventi molto discussi: da un lato, l'entrata in scena di Joss Whedon come supervisore delle riprese supplementari e di tutta la post-produzione di Justice League, su esplicita richiesta di Zack Snyder che è stato segnato da un lutto in famiglia; dall'altro, il licenziamento di Phil Lord e Chris Miller sul set del film dedicato al giovane Han Solo, prima che le riprese principali fossero state completate (al duo è poi subentrato Ron Howard). Da lì è scaturita l'ennesima polemica, soprattutto da parte dei cinefili duri e puri, sulla presunta violazione dei poteri decisionali del regista e sulla crisi dell'autorialità a Hollywood. Un argomento complesso sul quale noi vogliamo cercare di fare un po' di chiarezza.
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Il final cut, questo sconosciuto
Sulla controversia legata a Han Solo è intervenuto persino Colin Trevorrow, regista di Star Wars: Episode IX (dal quale è stato successivamente estromesso). Il cineasta, intervistato dall'Hollywood Reporter, ha smentito la teoria popolare sul regista come autorità assoluta sul set, sottolineando la natura collaborativa del mezzo cinematografico. Ha poi aggiunto che "salvo alcuni casi eccezionali, il final cut praticamente non esiste più". Già, il final cut, l'autorità decisiva sulla versione del film che uscirà in sala. Per l'esattezza, in America si parla di final cut privilege: un privilegio, non un diritto. Chi ne gode, nel cinema statunitense? Stando agli addetti ai lavori, pochi eletti, quasi tutti accomunati dal successo commerciale: Steven Spielberg, Christopher Nolan, James Cameron, Peter Jackson, David Fincher, Michael Bay. Tra coloro che non girano blockbuster ma godono dell'apprezzamento della critica tale privilegio spetta anche a Terrence Malick, Woody Allen (capace persino di imporre che i suoi film non vengano rimontati/censurati per la televisione e le linee aeree), Joel Coen e Ethan Coen, Clint Eastwood e Alexander Payne. Tutti gli altri devono negoziare di volta in volta, il più delle volte ottenendo il final cut solo se il budget è particolarmente basso, o se film è prodotto per vie alternative: è il caso di Bright, lungometraggio di David Ayer che sarà disponibile direttamente su Netflix il 22 dicembre. Il regista ha commentato la scelta spiegando che con uno studio tradizionale non gli sarebbe mai stata concessa la possibilità di girare un thriller fantasy vietato ai minori e con un budget di 90 milioni di dollari.
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Tuttavia, nemmeno coloro che godono di questo privilegio sono onnipotenti: il più delle volte, il contratto impone comunque una durata ben precisa e un divieto che, qualora il film sia per un pubblico adulto, non vada al di là del visto R (poiché il gradino successivo, NC-17, comporta un'uscita limitata nei cinema americani a causa della politica aziendale delle principali catene di multiplex). Se ci fate caso, dopo il King Kong di Jackson (che doveva durare due ore mezza, e fu allungato a spese del regista) nessun film dal sapore commerciale, con l'eccezione di Interstellar, ha avuto una durata superiore ai 165 minuti. Questo per due motivi: è la soglia oltre la quale si perde uno spettacolo al giorno, ed è vicino al limite massimo consentito per le proiezioni in IMAX (che Nolan ha sfiorato con il già citato Interstellar, che dura 169 minuti). Pertanto chi si lamenta della presunta "scorrettezza" della Warner Bros. nei confronti di Snyder per la durata di Batman v Superman: Dawn of Justice sta protestando inutilmente: il regista avrà anche preferito la versione di tre ore, ma era tassativamente escluso che questa uscisse al cinema su larga scala. Quanto alle questioni di censura, nemmeno un mostro sacro come Stanley Kubrick era immune alle esigenze contrattuali: quando Eyes wide shut è uscito negli USA è stato necessario ritoccare la famigerata sequenza dell'orgia, aggiungendo delle comparse digitali per oscurare gli atti sessuali più espliciti, al fine di evitare il visto NC-17.
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Il curioso caso di Jason Blum
Abbiamo già accennato al fatto che un regista possa aspirare al final cut se il film non costa troppo. Un principio perfettamente esemplificato dal produttore Jason Blum e dalla sua casa di produzione Blumhouse, specializzata in film horror e guidata da un principio elementare: escludendo eventuali sequel, nessun lungometraggio può costare più di cinque milioni di dollari. Lo stesso Blum ha giustificato questa politica aziendale spiegando che mantenendo i costi a quei livelli lui si sente libero di garantire il final cut al regista (l'unica eccezione è la saga de La notte del giudizio: essendo prodotta in collaborazione con Platinum Dunes, il potere decisionale spetta a Michael Bay). Per questo motivo la Blumhouse, anche con le sue saghe di successo, non spenderà mai certe cifre, nemmeno una somma apparentemente modesta - per gli standard hollywoodiani - come 30 milioni di dollari: lo stesso Blum ha citato quel numero come il punto in cui anche lui sarebbe restio a concedere il potere creativo al regista, perché a quel punto si inizia a pensare seriamente a come recuperare i soldi spesi. E vista l'esperienza precedente di Blum come acquirente per la Miramax, tale affermazione è basata su eventi reali...
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Indipendenza?
Si tende a partire dal presupposto che il cosiddetto cinema d'autore, indipendente, non sia soggetto alle stesse regole dei blockbuster. In realtà anche in quel contesto il final cut è spesso una questione di trattative, con cavilli e clausole di vario tipo. Chi ha letto il libro Down and Dirty Pictures di Peter Biskind, sull'ascesa del Sundance Festival e della Miramax, avrà ben presente le varie storie dell'orrore sul pessimo rapporto fra Harvey Weinstein e gran parte dei registi con cui ha lavorato (la grande eccezione è Quentin Tarantino). Un aneddoto in particolare la dice lunga: quando Billy Bob Thornton ha girato Passione ribelle, il suo contratto da regista imponeva una durata non superiore alle due ore per evitare che il film finisse in mano a "Harvey Mani di Forbice". Quando Thornton ha consegnato un primo montaggio che arrivava quasi al doppio del minutaggio pattuito, Weinstein gli ha fatto presente quanto scritto nel contratto, aspettandosi che il regista lavorasse ulteriormente al film. Thornton lo ha mandato a quel paese, e così la versione definitiva, uscita al cinema, è stata assemblata senza la partecipazione del cineasta.
Nello stesso libro si menziona anche una cosa accaduta ad Alexander Payne, uno dei pochi registi che in teoria non dovrebbe aver bisogno di litigare con i produttori: quando lui realizzò A proposito di Schmidt, la New Line decise di girare un finale diverso, nonostante Payne avesse diritto al final cut. Furono comunque testate entrambe le versioni, e il regista ebbe la meglio semplicemente perché il pubblico delle proiezioni test preferì il director's cut. Più recentemente c'è stato il caso di Manchester by the Sea: dato che Kenneth Lonergan era incorso in problemi legali durante la realizzazione del suo film precedente, il final cut fu dato al produttore Matt Damon, il quale ha poi chiarito che si trattava di una semplice formalità per rassicurare chi stava finanziando il progetto, e che il lungometraggio uscito nelle sale è esattamente come l'ha voluto Lonergan.
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Anche in Europa, persino nella patria della politique des auteurs, la Francia, succede che il regista debba sottomettersi a esigenze commerciali. Quando La vita di Adele è uscito al cinema in patria nell'autunno del 2013, pochi mesi dopo aver vinto la Palma d'Oro a Cannes, il regista Abdellatif Kechiche, intervistato da Positif, ha svelato che per contratto il film doveva durare due ore. Se i giurati di Cannes e il pubblico hanno potuto vedere la versione attuale, che supera di poco le tre ore, è solo perché i produttori, dopo aver visionato due montaggi diversi, hanno preferito la versione più lunga. E sempre a Cannes c'è stata, quest'anno, una polemica tra i giornalisti francesi sul film d'apertura, Ismael's Ghosts di Arnaud Desplechin: sulla Croisette e in sala si è vista la versione di 115 minuti, mentre il director's cut di 135 minuti è uscito in pochi cinema d'essai a Parigi. Quanto all'Italia, è sufficiente ricordare il caso di Nuovo cinema Paradiso, il cui statuto di capolavoro acclamato a livello internazionale è merito soprattutto del produttore Franco Cristaldi, il quale rimaneggiò il film di Giuseppe Tornatore per renderlo più breve e scorrevole. Nemmeno i membri votanti dell'Academy, che gli assegnarono l'Oscar come miglior film straniero, videro il montaggio di Tornatore.
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Questo non è il mio film!
Per tutelare i registi la Directors Guild of America ha introdotto, negli anni Sessanta, la regola in base al quale un cineasta convinto che la versione uscita in sala non rappresenti la sua visione può richiedere di essere accreditato con uno pseudonimo. Due le condizioni per ottenerlo: il regista deve dimostrare di essere stato privato del suo potere decisionale oltre i limiti stabiliti con i produttori, e non potrà mai ammettere pubblicamente di aver girato il film in questione. Il primo ad usufruire di questa possibilità è stato Don Siegel, mentre registi come Michael Mann e David Lynch se ne sono serviti per quando i loro film vengono trasmessi in televisione, con svariati tagli imposti dalla censura dei network generalisti. Fino al 1997 lo pseudonimo d'ordinanza era Alan Smithee, rimosso dopo l'uscita del film Hollywood brucia dove si parla proprio di questa pratica. In tempi più recenti Walter Hill si è fatto chiamare Thomas Lee nei credits di Supernova, mentre dietro il nome Stephen Greene, a cui è attribuito Accidental Love, si cela David O. Russell, che ha abbandonato il progetto prima della post-produzione a causa di difficoltà finanziarie per portare a termine le riprese.
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E alla fine arrivano i reshoots...
Particolarmente controversa è la questione dei reshoots, noti anche come additional photography (riprese supplementari). Una pratica divenuta nota grazie ai film del Marvel Cinematic Universe e alla saga della Terra di Mezzo di Peter Jackson, trattandosi di produzioni dove le eventuali riprese aggiuntive - uno stratagemma utile qualora in sede di montaggio emergessero problemi legati alla progressione narrativa - sono incluse da subito nel piano di lavorazione e nel budget, e fanno parte del contratto dei vari attori. Il luogo comune tra i cinefili vuole che queste riprese supplementari servano a rendere i film più commerciali e "banali", e che sia una pratica usata solo per i blockbuster. In realtà riguarda ogni genere di produzione, compresi i cosiddetti film "da Oscar": Il silenzio degli innocenti, I soliti sospetti e Le ali della libertà (che non vinse nessun Academy Award, ma rientra nella categoria delle pellicole da premio) sono stati tutti rigirati in un modo o nell'altro. Nel caso de Il silenzio degli innocenti, per esempio, il primo montaggio non mostrava l'evasione di Hannibal Lecter, che veniva solo menzionata. La scena fu quindi aggiunta, su decisione congiunta di Jonathan Demme e dello studio, dopo che entrambe le parti si resero conto del "buco" a livello di ritmo e suspense generato dall'omissione iniziale.
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Ritorno al passato
L'equilibrio tra istinti creativi del regista e esigenze produttive è in realtà un elemento fondamentale del sistema hollywoodiano quasi da sempre, soprattutto se si pensa all'era dello studio system quando attori, registi e sceneggiatori erano sotto contratto con una major in particolare e accettavano gli incarichi senza per forza aver dato origine al progetto in questione. Basti pensare a David O. Selznick, inauguratore della figura del superproduttore incarnata oggi da persone come Jerry Bruckheimer e Kevin Feige, nonché principale mente creativa dietro l'archetipo del kolossal che fu Via col vento, ufficialmente attribuito a Victor Fleming ma in realtà girato in parte anche da George Cukor (che fu licenziato dopo tre settimane di riprese) e Sam Wood (che subentrò a Fleming per un breve periodo quando quest'ultimo fu costretto ad assentarsi per cause di forza maggiore). L'altro esempio celebre del medesimo periodo è Il mago di Oz, che passò tra le mani di cinque registi diversi, tra cui Cukor (che in realtà fu solo un consulente durante un periodo di crisi) e Fleming (che girò la maggior parte del film ma fu sostituito da King Vidor per l'ultima fase dopo essere stato reclutato in extremis per Via col vento).
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Quattro decenni dopo ci fu il caso della prima trilogia di Star Wars, con George Lucas che scelse Richard Marquand per Il ritorno dello Jedi specificamente perché gli serviva un regista sufficientemente "controllabile". Persino Steven Spielberg, uno dei pochi cineasti ad avere diritto al final cut più o meno a prescindere, ha candidamente ammesso di aver assecondato Lucas durante la lavorazione di Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo, lasciando intatte le parti di trama che lui stesso avrebbe preferito rimuovere (l'elemento extraterrestre su tutti). Tornando alle affermazioni di Trevorrow, il regista come persona più importante nel processo di creazione del film è ormai un mito, una reliquia romanticizzata di un breve periodo in cui erano veramente i cineasti a dettare legge, mentre oggi per avere la stessa libertà è necessario lavorare con budget minuscoli o rivolgersi a realtà nuove come Netflix (vedi Bong Joon-ho, che dopo l'esperienza di Snowpiercer - film che ha rischiato di non arrivare in sala a causa di Harvey Weinstein - ha preferito evitare il sistema di produzione classico). La soluzione ideale, soprattutto nell'ambiente dei blockbuster, è trovare l'equilibrio giusto, la sintonia tra chi finanzia il film e chi lo gira, al servizio di un lavoro collaborativo dove è possibile esprimere le velleità artistiche del regista senza dimenticare di essere al soldo della macchina cinema. Nei casi migliori, questo equilibrio produce opere come Il cavaliere oscuro o Guardiani della Galassia, riconoscibilmente figli dei rispettivi autori e al contempo ancorati in una realtà produttiva ben precisa. Per non parlare di un caso emblematico come quello di Spider-Man 2, generalmente ritenuto il più riuscito dei vari adattamenti dei fumetti Marvel e uno degli esempi migliori di cinecomic "d'autore". Ebbene, quel film è stato girato da Sam Raimi, un regista che, stando a Variety, non ha mai avuto il privilegio del final cut in vita sua...