È nel Tuo silenzio che trovo la Tua voce...
In una delle sequenze più suggestive di Silence Sebastião Rodrigues, stanco e affaticato, si china verso un ruscello. Nella superficie dell'acqua, il prete gesuita vede il riflesso del proprio volto assumere le sembianze di quello del Cristo ritratto nei dipinti di El Greco, pittore vissuto pochi decenni prima rispetto agli eventi narrati nel film. Colto dallo stupore Rodrigues, come un novello Narciso, rimane incantato a contemplare quella visione quasi mistica.
È una scena che dura lo spazio di pochi istanti, del tutto ininfluente dal punto di vista narrativo, ma assolutamente rivelatrice della natura del protagonista di Silence. Dall'identificazione fra padre Sebastião Rodrigues, interpretato da un intenso Andrew Garfield, e l'iconografia di Cristo emerge il senso profondo del percorso intrapreso dal giovane missionario portoghese: una 'crociata' combattuta con le armi (innanzitutto linguistiche) del proselitismo e al contempo un cammino verso un'identificazione sempre più marcata fra il giovane gesuita e Gesù stesso.
Padre Rodrigues: un missionario sulle orme di Cristo
Osservandolo mediante questa ottica, Silence può essere considerato pertanto come un'ideale imitatio Christi, in cui Sebastião Rodrigues si adopera per aderire quanto più possibile al modello etico e alla parabola umana di Gesù. A partire dall'incipit del film, che Martin Scorsese ha adattato a partire dal romanzo storico Silenzio, pubblicato nel 1966 da Shusaku Endo e ispirato alla reale figura del gesuita portoghese Cristóvão Ferreira. Nelle prime scene di Silence Ferreira, impersonato da Liam Neeson, assiste con sgomento alle persecuzioni messe in atto dal regime giapponese; ed è appunto per ritrovare padre Ferreira, di cui si sono perse le tracce, che Sebastião Rodrigues convince Alessandro Valignano (Ciarán Hinds), promotore della missione cattolica in Giappone, a farlo partire per l'Estremo Oriente, in compagnia di padre Francisco Garupe (Adam Driver).
L'ostinato fervore di Sebastião Rodrigues, incapace di accettare l'idea dell'apostasia del proprio mentore, è il primo tratto distintivo del personaggio di Andrew Garfield: un fervore che avrà la meglio perfino sulle perplessità di padre Valignano, e che indurrà Rodrigues e Garupe a sfidare gli innumerevoli pericoli del Giappone degli shogun, ferocemente ostile nei confronti dei missionari cristiani, considerati come elementi di disgregazione per il tessuto culturale e sociale del paese. E nel corso del film, la dimensione cristologica dell'avventura di Sebastião Rodrigues acquisisce un'evidenza sempre maggiore, dalla sequenza del rispecchiamento nelle acque del fiume a quella sorta di "vocazione al martirio" del padre gesuita, pronto a subire qualunque supplizio pur di restare fedele ai propri principi missionari: proporsi come un campione del Cristianesimo, inteso come 'verità' da contrapporre alle 'false' religioni orientali, e non rinnegare in alcun caso la propria fede in Dio e la venerazione per i simboli della religione cristiana.
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Le inquietudini religiose di un prete mancato
Come già ricordato nella recensione di Silence, questo progetto riveste un'importanza particolare nell'itinerario di Martin Scorsese: un regista nato nel Queens e formatosi presso una scuola religiosa nel Bronx, che come molti già sapranno in gioventù aveva coltivato il proposito di diventare prete, al punto da frequentare per un periodo il seminario. E la sua rigida educazione cattolica è un'impronta che lo Scorsese cineasta riverserà in più occasioni nelle proprie pellicole, a partire dal film di debutto: in Chi sta bussando alla mia porta?, del 1967, il giovane italoamericano newyorkese J.R. (Harvey Keitel, rinominato Charlie nella versione italiana) vede la sua relazione con una ragazza fortemente condizionata dalle proprie credenze religiose, che lo portano a non voler consumare il loro rapporto prima del matrimonio per poi restare sconvolto alla scoperta che la giovane aveva perso la verginità in seguito a una violenza sessuale.
Le inquietudini di J.R., e la sua tendenza a cercare rifugio e conforto nella chiesa locale, costituiscono richiami autobiografici all'esperienza di Scorsese: esperienza che confluisce, opportunamente filtrata dalla finzione narrativa, anche nel terzo lungometraggio del regista, nonché nel film che per la prima volta lo imporrà all'attenzione della critica, ovvero Mean Streets del 1973. È ancora Harvey Keitel, questa volta nella parte di Charlie Cappa, un giovane balordo di Little Italy, ad incarnare il fulcro del conflitto alla radice della trama: quello fra una squallida esistenza al soldo di un piccolo boss locale, suo zio Giovanni, e la sua fede cattolica, che sfocerà in un disperato bisogno di redenzione. Proprio tale ansia di redenzione è una caratteristica che accomunerà diversi antieroi del cinema di Scorsese, e che porterà Charlie a mettere a rischio se stesso pur di proteggere il suo miglior amico, lo sbandato Johnny Boy (un altro attore feticcio della filmografia scorsesiana, Robert De Niro).
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Travis Bickle: l'angelo sterminatore
Se il Charlie di Mean Streets aspira a una redenzione per se stesso, tre anni più tardi il Travis Bickle di Taxi Driver deciderà di battersi per la redenzione di un'intera città. In uno dei massimi capolavori della produzione di Scorsese, il tassista notturno interpretato da un magistrale Robert De Niro osserva dal finestrino del proprio veicolo le strade di una New York lurida e tenebrosa: un'anticamera dell'inferno sulla terra, popolata dagli "animali più strani", teatro di un degrado che non è unicamente sociale, ma assume sfumature quasi metafisiche. E Travis, vittima di un'alienazione che l'ha condannato a un'inesorabile solitudine, esprime la sua repulsione per questa città di 'peccatori' invocando un castigo biblico: "Un giorno o l'altro verrà un altro diluvio universale e ripulirà le strade una volta per sempre".
Mentre l'imitatio Christi del Sebastião Rodrigues di Silence è declinata in funzione proselitrice e di accettazione del martirio, secondo una spiritualità più prossima al Nuovo Testamento, la drammatica trasformazione di Travis Bickle in un vigilante notturno può essere considerata una sorta di autoproclamazione ad "angelo sterminatore", strumento punitivo nelle mani di un Dio implacabile più vicino allo spirito dell'Antico Testamento. E così New York, moderna Sodoma e Gomorra, diventa il focolaio di peccato da ripulire senza pietà, all'occorrenza facendo scorrere il sangue dei 'filistei'; mentre il Travis di Robert De Niro, deciso a salvare una Maria Maddalena a malapena adolescente (la Iris di Jodie Foster) dagli orrori del marciapiede, affronterà una traiettoria di redenzione che implica anche la possibilità di un radicale sacrificio personale, nell'agghiacciante carneficina che segna l'epilogo infuocato di Taxi Driver.
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La tentazione e il martirio, ieri e oggi
Sempre Paul Schrader, autore del copione e della sceneggiatura di Taxi Driver, nel 1988 collabora con Martin Scorsese alla realizzazione di uno dei film più affascinanti e complessi del regista: L'ultima tentazione di Cristo, adattamento dell'omonimo romanzo del 1955 di Nikos Kazantzakis, accolto da ondate di polemiche preventive e addirittura da tentativi di boicottaggio. L'approccio problematico e intimamente laico di una pellicola come Silence verso il tema della fede è già riscontrabile in questo "Vangelo apocrifo" che risulta uno dei film più personali e appassionati nella carriera di Scorsese. Così come non potrebbe essere più viscerale l'empatia dimostrata dall'autore nei confronti del Gesù di Willem Dafoe: un Cristo umanissimo, spogliato di qualunque riverenza di marca fideistica e di qualunque sospetto di agiografia per esplorarne invece desideri e dilemmi, con una sensibilità e una sincerità che lasciano ammirati.
Altri elementi alla radice di Silence sono rintracciabili in precedenti titoli di Martin Scorsese. Il collegamento più immediato, se non altro per l'ambientazione orientale, è di sicuro Kundun, sottovalutato dramma storico diretto da Scorsese nel 1997 (uno dei suoi rari 'tonfi' commerciali), in cui il regista prende di petto un tema che avrà un ruolo centrale pure in Silence: il conflitto fra l'espressione della fede, rappresentata nel caso specifico dal quattordicesimo Dalai Lama, Tenzin Gyatso, e la violenza del potere politico (il regime comunista in Cina, che sarebbe poi sfociato nella cosiddetta Rivoluzione culturale). Una spiritualità più laica e tormentata è invece quella insita nel personaggio di Frank Pierce (Nicolas Cage), paramedico di un'ambulanza in una New York oscura e delirante non troppo dissimile da quella di Taxi Driver, in Al di là della vita del 1999: il testimone quasi impotente della follia e della sofferenza di una città-Purgatorio, ossessionato dalla speranza di poter assumere una funzione salvifica contro il dolore con cui entra in contatto quotidianamente.
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Urla del silenzio: cercando la voce di Dio
L'ossessione di Frank Pierce, imperfetto 'angelo' che vive per soccorrere uomini e donne bisognosi d'aiuto, si trasferisce in Silence nell'ossessione mistica di Sebastião Rodrigues, che pur di offrire ascolto e conforto ai contadini dei villaggi nei pressi di Nagasaki, pur di adempiere al compito di 'messaggero' della parola di Dio, non esiterà a battersi testa a testa con il potere politico, incarnato nel film dall'anziano samurai Inoue Masashige (un Issei Ogata superbamente ambiguo), il Grande Inquisitore intenzionato a sradicare il Cristianesimo dal Giappone buddista (un personaggio, Masashige, realmente esistito, tra i capofila delle persecuzioni religiose nel diciassettesimo secolo e amante dello shogun Tokugawa Iemitsu). Nei serrati duelli dialettici fra Rodrigues e Masashige risiede la matrice 'politica' dell'opera di Scorsese, la sua riflessione sull'intreccio difficilmente decifrabile fra cultura, religione e società, aspetto già analizzato nella recensione di Alessia Starace: "Silence è un film che parla di uno scontro fra credenze, ordini di pensiero, culture, ognuna delle quali cerca di imporsi dall'esterno senza avere alcun interesse o autentica apertura nei confronti dell'altra, che da parte sua applica una difesa chirurgica e spietata. La violenza sta da ambo le parti".
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E in questo tipo di approccio, oltre che nello splendore formale di un film così maestoso e ieratico, si riscontra la grandezza di una pellicola come Silence e di un regista come Martin Scorsese: nella sua impostazione niente affatto dogmatica, ma al contrario quanto più aperta, aspra e problematizzante possibile. Perché Silence è un'opera che non teme di farsi carico delle angosce divoranti e dei dilemmi senza soluzione di questi "preti caduti", per i quali il martirio si presenta come l'ultima (l'unica?) strada per arrivare alla voce di Dio. Quella voce che Sebastião Rodrigues cerca strenuamente, soprattutto nei momenti più duri del proprio calvario di perseguitato e di prigioniero, mentre - per paradosso - è dai suoi aguzzini che arriverà un monito alle cui implicazioni non è possibile sottrarsi: "Prega con gli occhi aperti".
La fede, sembra dirci il film, non appartiene a una dimensione 'altra', ma si esplica qui, nel mondo, nelle grida di chi soffre accanto a noi: solo comprendendo questo, padre Rodrigues potrà assumere piena consapevolezza della scelta fra il martirio di vittime innocenti e il sacrificio dei propri vessilli religiosi (quelle icone calpestate fra le lacrime, davanti agli occhi dei nemici giapponesi). Un dissidio insanabile al quale Silence non fornisce facili risposte, servendosi al contrario della riapparizione di padre Ferreira per instillare ulteriori dubbi nel cuore di Sebastião Rodrigues. E in un film in cui ogni contrasto e ogni battaglia si consumano su un piano totalmente 'interiore', lo Scorsese regista trova una mirabile sintesi a tale dissidio (se di sintesi si può parlare) nella scena finale: una sequenza di devastante forza espressiva, per un rinnovato dialogo fra l'uomo e Dio affidato, non a caso, al più profondo dei silenzi.