È ormai assodato che la narrativa seriale americana, soprattutto negli ultimi quindici anni, abbia vissuto - e stia tuttora vivendo - un periodo di straordinaria fioritura: non solo con un aumento esponenziale della qualità artistica delle serie TV, che sempre più di frequente assurgono a quello status di cult riservato in precedenza quasi esclusivamente alle opere cinematografiche, ma anche in virtù delle innovazioni che tali serie hanno proposto al pubblico, arrivando in taluni casi addirittura a riscrivere le regole della narrazione televisiva.
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Ed è proprio su quest'ultimo fenomeno che vogliamo dirigere la nostra attenzione, prendendo spunto da una nuova serie che ha raccolto consensi e conquistato un'attenzione sempre maggiore da parte degli spettatori, fino a conquistare il Golden Globe come miglior serie drammatica del 2014: The Affair, un curioso mystery drama che si è distinto soprattutto per l'originalità di una storia raccontata secondo i punti di vista, spesso divergenti o contraddittori, dei due protagonisti: lo scrittore e padre di famiglia Noah Solloway e la giovane cameriera Alison Lockhart, sullo scenario della località vacanziera di Montauk, negli Hampton.
Ma The Affair, dal 7 settembre in onda in prima visione italiana su Sky Atlantic, rappresenta solo l'ultimo titolo in un lungo elenco di serie che, con risultati più o meno brillanti (e talvolta con esiti davvero eccezionali), hanno ribaltato le convenzioni della fiction TV giocando con uno degli elementi costitutivi di qualunque tipo di narrazione: il tempo. Alcune fra le serie più interessanti ed acclamate dell'ultimo decennio, infatti, si sono fatte apprezzare appunto per la loro abilità nel costruire meccanismi temporali inediti e sorprendenti, rifuggendo la consueta linearità cronologica a favore di scelte più azzardate, in grado di dar vita ad intrecci estremamente coinvolgenti; oppure hanno optato per una gestione del tempo atipica, che potesse spiazzare ed affascinare il pubblico. In questo articolo vi proponiamo dunque qualche esempio eccellente di come la TV odierna abbia saputo "piegare il tempo" al proprio servizio, regalandoci in tal modo storie ancora più dense ed appassionanti.
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La narrazione in tempo reale: 24
Partiamo da un caso decisamente singolare, ovvero quello di una serie che, anziché operare salti temporali fra passato e presente, ha adottato una soluzione opposta, ma in maniera a dir poco radicale: la linearità narrativa portata al suo estremo, con geometrica ed inattaccabile precisione. Stiamo parlando di 24, un prodotto a metà strada fra il thriller politico e la spy story, in onda con enorme successo sulla Fox fra il 2001 e il 2010, per un totale di otto stagioni, a cui vanno aggiunte il film TV 24: Redemption ed una nona stagione di dodici episodi, 24: Live Another Day, trasmessa negli USA la scorsa primavera. Ciascuna stagione di 24, come lascia intuire già il titolo, racconta una giornata - suddivisa in ventiquattro ore - dell'agente federale Jack Bauer, membro di un'agenzia anti-terrorismo con sede a Los Angeles, la Counter Terrorist Unit. Vedovo e con una figlia adolescente, Jack Bauer, interpretato dall'attore Kiefer Sutherland, si offre come una personificazione del "braccio violento" della lotta al terrorismo, in una costante - e spesso dolorosa - dialettica fra l'etica della giustizia e quella violenza che sembra diventata una componente ineludibile della nostra contemporaneità (Bauer, difatti, ricorre più volte a metodi ai confini della legalità, inclusa la tortura).
L'impatto rivoluzionario di 24 sul panorama televisivo del nuovo millennio deriva essenzialmente dalla formula adoperata per ciascuna delle sue stagioni: una totale aderenza fra il "tempo della storia" e il "tempo del racconto". Ogni episodio di 24, della durata di un'ora, ripercorre infatti una delle ventiquattro ore di un'intera giornata, in una perfetta compenetrazione fra il tempo vissuto dai personaggi e quello impiegato per la messa in scena degli eventi, con un frequente utilizzo dello split screen come strumento di raccordo fra le varie stoyline. La narrazione in "tempo reale" era già stata impiegata al cinema, in genere per film di impianto teatrale caratterizzati dalle unità di azione, tempo e luogo, ma ha costituito un'assoluta novità per la televisione. Il concetto di real time, rimarcato dall'orologio che compare sullo schermo a scandire il trascorrere dei minuti, non si limita tuttavia a conferire maggior ritmo e tensione alle missioni dell'agente Bauer, ma assume un valore più profondo: trasmettere un'urgenza - narrativa e morale - che può esprimersi solo e soltanto nel presente, nel "qui ed ora", unica dimensione concepibile in un incedere incalzante che non ammette le opzioni dell'immaginazione o del ricordo. Mentre, per la prima volta, anche la televisione si è dimostrata in grado di restituire il "tempo della vita" senza filtri né ellissi, facendolo combaciare scrupolosamente, istante per istante, al tempo di fruizione dello spettatore. Un approccio analogo sarà quello usato per In Treatment, in cui ciascun episodio mette in scena in real time, per un durata di circa venticinque minuti, una seduta di terapia fra lo psicologo Paul Weston (Gabriel Byrne) e uno dei suoi pazienti; ogni sessione di psicanalisi, fra l'altro, si svolge nello stesso giorno della settimana in cui veniva trasmesso il rispettivo episodio, a rimarcare tale adesione fra realtà e fiction.
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Fra presente e passato: Lost
Parlando di tempo e di narratologia, lo strumento più comune e diffuso, fin dagli albori della letteratura e del cinema (prima ancora che della televisione), è ovviamente il flashback. Dovendo selezionare però un singolo esempio per questa tecnica narrativa, la scelta non poteva che ricadere su Lost, forse il maggiore fenomeno televisivo - perlomeno dal punto di vista del responso popolare - dello scorso decennio. Realizzato da un Re Mida del piccolo schermo quale J.J. Abrams e trasmesso dalla ABC fra il 2004 e il 2010, con ascolti stratosferici, per un totale di sei stagioni, Lost è una serie mystery dai contorni soprannaturali entrata di prepotenza nell'immaginario collettivo. I personaggi della serie sono i superstiti di un terribile incidente che, il 22 settembre 2004, ha portato un aereo di linea di una compagnia australiana, in viaggio da Sydney a Los Angeles, a schiantarsi sulle coste di una fantomatica isola dell'Oceano Pacifico, apparentemente disabitata. Spaventati e feriti, i quarantotto individui si raccolgono in una comunità che, in attesa degli auspicati soccorsi, deve impegnarsi a sopravvivere e a mantenere un difficile equilibrio. L'isola, però, nasconde più di un segreto e si rivelerà il teatro di eventi strani ed angoscianti.
Fin dall'impressionante apparato produttivo sfoderato nello spettacolare pilot, Lost ha coniugato la dimensione corale della cronaca di una "rifondazione della civiltà" in una no man's land, sul modello de Il signore delle mosche di William Golding, con diversi ingredienti mutuati dalla fantascienza e dal thriller soprannaturale, virando ben presto verso territori fantastici ed onirici. Al cuore della narrazione, almeno per quanto riguarda la prima stagione della serie, si può identificare però l'inesorabile dualismo fra passato e presente: nel contesto attuale della permanenza sull'isola, infatti, il passato continua ad esercitare una pressione a tratti perfino distruttiva, che sfocia in speranze, dubbi, sensi di colpa e scheletri da tenere ben nascosti negli armadi. E il flashback, più che in qualunque altra serie coeva, diventa il veicolo privilegiato per conoscere appieno il vasto numero di protagonisti: il loro background familiare e personale, ma anche il loro carattere, la loro statura morale, le scelte che ne hanno determinato il percorso esperienziale. L'analessi, racconto di un fatto conclusosi in un tempo antecedente rispetto alla linea narrativa principale, è un espediente sfruttato praticamente in ogni show seriale, ma in Lost è promosso ad elemento primario del racconto: ciascun episodio della prima stagione innesta infatti, all'interno del plot, un flashback dedicato ad un preciso personaggio, in modo da far avvicinare quanto più possibile lo spettatore alla realtà emotiva dei protagonisti.
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Fra presente e futuro: Damages
Se in Lost il passato e il presente si configurano come i poli di una dialettica volta all'esplorazione dei confini della conoscenza, un meccanismo speculare è quello attuato dagli autori di Damages, pluripremiata serie legal thriller nonché inarrivabile capolavoro di storytelling applicato alla fiction televisiva. Trasmessa in cinque stagioni, fra il 2007 e il 2012, prima dalla rete FX e poi da Audience Network, Damages illustra il rapporto fra Ellen Parsons (Rose Byrne), giovane avvocato neo-laureato, e Patty Hewes (una sublime Glenn Close), astuta e spregiudicata dirigente di uno dei più prestigiosi studi legali di New York: una relazione fra mentore e allieva che si colora di toni malati e perfino vampiristici man mano che Ellen, avvocato molto abile ma per certi versi ancora naïve, inizia a sperimentare la propria "perdita dell'innocenza", scivolando progressivamente in un lato oscuro in cui i limiti imposti dall'etica finiscono per confondersi e dissolversi.
Ma il tratto distintivo di Damages è costituito dalla sua struttura narrativa, in cui ad un mezzo inflazionato quale il flashback si predilige una tecnica ben più elaborata e sofisticata: il flashforward, l'anticipazione di eventi futuri. A scandire la natura peculiarissima - e straordinariamente intrigante - del racconto sviluppato in Damages è già il magnifico pilot della serie, aperto da uno degli incipit più spiazzanti ed incisivi nella storia della TV: le porte di un ascensore si aprono sull'espressione sconvolta della protagonista, Ellen, la quale indossa un impermeabile macchiato di sangue. Per scoprire cos'è accaduto alla ragazza, nonché le modalità e i responsabili del delitto mostrato nei flashforward, dovremo tornare sei mesi addietro, al primo incontro fra Ellen e Patty, mentre in ogni episodio ci vengono forniti alcuni tasselli da aggiungere al puzzle del quadro complessivo.
Sul suddetto modello, replicato con significative varianti anche nelle stagioni seguenti, Damages costruisce una narrazione che sfida costantemente lo spettatore, spingendolo a rivalutare quanto ha osservato con una consapevolezza che muta di puntata in puntata, aprendo squarci verso nuove prospettive ed ipotesi. Se i flashback svolgono il più delle volte una funzione chiarificatrice, in Damages, al contrario, i flashforward sono piuttosto gli strumenti per problematizzare la realtà ed offrirci un nuovo punto di vista sul presente: un punto di vista talora ambiguo, fonte di suspense e di una più intima e logorante inquietudine. Altre serie si sono cimentate con la medesima tecnica: dal poco fortunato FlashForward al blasonatissimo Breaking Bad (che tuttavia si è limitato ad inserire brevi inserti anticipatori), fino al più recente Le regole del delitto perfetto, che ha tentato di confrontarsi con il genere legal adottando la stessa impostazione di Damages, senza però replicarne - neppure alla lontana - gli eccelsi risultati.
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La pluralità delle linee temporali: True Detective
L'autentico evento televisivo del 2014 è stato senza ombra di dubbio True Detective, crime drama antologico firmato da Nic Pizzolatto per la HBO, con Cary Fukunaga alla regia degli otto episodi di una prima stagione indipendente e autoconclusa. Assurta allo statuto di instant classic, anche in virtù delle superbe performance di Matthew McConaughey e Woody Harrelson, la prima stagione di True Detective si è rivelata un prodotto in grado di fondere in un connubio impeccabile la forza di una costruzione drammaturgica in grado di sfruttare al meglio la propria natura seriale, la qualità 'letteraria' dei dialoghi di Pizzolatto (con una sceneggiatura che mostra l'influenza di una certa narrativa noir contemporanea) ed una messa in scena che, a livello di regia, di fotografia e di montaggio, non ha nulla da invidiare ai migliori titoli cinematografici dell'analogo filone (basti guardare lo stupefacente piano sequenza di sei minuti nell'episodio Cani sciolti). E parte del fascino di True Detective deriva non a caso dal carattere anticonvenzionale della trama, segmentata in tre piani narrativi differenti, che corrispondono a tre linee temporali.
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Nella più lontana, ambientata nel gennaio 1995, due detective della Louisiana, Marty Hart e Rust Cohle, sono impegnati ad investigare sull'omicidio della prostituta Dora Lange, che potrebbe essere opera di un serial killer; tale indagine viene rievocata tramite analessi proprio dai due detective, che nel 2012 sono sottoposti ad un interrogatorio da parte della polizia, intenzionata a far luce su quanto avvenuto diciassette anni prima. Il "racconto nel racconto" si sposta quindi, a partire dal quinto episodio, nel 2002, con un nuovo percorso temporale e nuovi conflitti nel rapporto fra i due detective, mentre gli ultimi due episodi sono ambientati interamente nel presente. Pure in questo caso si tratta di un meccanismo volto a problematizzare la materia trattata, e che accentua il senso di fatalità - nonché il tema del rimorso e della colpa - sospeso sui due protagonisti. Non si tratta, in sostanza, di un piano narrativo principale in cui si aprono flashback o flashforward, ma di un intreccio intessuto lungo sentieri paralleli, strettamente legati l'uno all'altro. Nel 2012, una struttura molto simile era già stata realizzata da Ryan Murphy per American Horror Story - Asylum, magistrale e tenebroso racconto horror sviluppato su due piani temporali interconnessi fra loro.
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La pluralità dei punti di vista: The Affair
Se in True Detective la cornice narrativa, almeno inizialmente, consiste negli interrogatori che permettono ai due protagonisti di offrire la rispettiva versione dei fatti sugli eventi del passato, una cornice pressoché identica è quella utilizzata in The Affair, in cui un detective della polizia chiede a una coppia di ex amanti, Noah Solloway (Dominic West) ed Alison Lockhart (Ruth Wilson, premiata con il Golden Globe come miglior attrice), di ripercorrere le varie tappe della loro relazione clandestina, iniziata l'estate dell'anno prima negli Hampton, all'insaputa delle loro famiglie: una love story, quella fra Noah ed Alison, correlata in qualche modo ad un misterioso delitto su cui lo spettatore riceve solo rari ed elusivi accenni.
A destare maggiore attenzione, in quella che sembrerebbe la cronaca di una banale passione extraconiugale, è proprio la scelta di presentare una duplice focalizzazione sulla vicenda, filtrata attraverso lo sguardo 'interno' - e quindi ineluttabilmente parziale - di entrambi i protagonisti, sulla base dell'intramontabile modello di un classico della settima arte quale Rashomon. Proprio come nel capolavoro di Akira Kurosawa, infatti, The Affair oscilla di volta in volta fra il punto di vista di Noah e quello di Alison, in una sorta di "dialettica della negazione" che porta i due ex amanti a contraddirsi l'un l'altro (seppure in maniera probabilmente inconscia), ponendo in rilievo non solo diverse sfumature della loro liaison, ma anche dettagli discordanti, omissioni, invenzioni o espedienti di "autodifesa" quasi freudiani. Nella seconda stagione, poi, tale meccanismo si complicherà ulteriormente, con l'inserito di altre due prospettive: quelle di Helen Butler (Maura Tierney), la moglie tradita di Noah, e di Cole Lockhart (Joshua Jackson), il marito di Alison. La storia di The Affair, pertanto, risulta essere il frutto di una memoria selettiva, e quindi fallace poiché fondata sulla percezione soggettiva di chi è chiamato a rivivere un'esperienza del passato.
E forse non è un caso che The Affair sia andato in onda in patria, sulla rete Showtime, nello stesso periodo in cui anche il cinema ci ha proposto ben due storie d'amore raccontate secondo le prospettive distinte di "lui" e di "lei": La scomparsa di Eleanor Rigby, il dittico di Ned Benson suddiviso in due capitoli distinti, Him e Her, che aderiscono ai punti di vista di una coppia di coniugi, Connor (James McAvoy) ed Eleanor (Jessica Chastain); e l'ottimo L'amore bugiardo - Gone Girl di David Fincher, tratto dal romanzo di Gillian Flynn, in cui il travagliato matrimonio fra Nick (Ben Affleck) ed Amy (Rosamund Pike) è l'oggetto di una detection spietata e implacabile. Il valore aggiunto di film come La scomparsa di Eleanor Rigby e Gone Girl e di una serie come The Affair è identificabile proprio in questo: nella sapienza con cui, rivisitando i codici del thriller, le suddette opere ci restituiscono il senso di frammentazione e di caos di una realtà impossibile da controllare - o da conoscere - fino in fondo: soprattutto quando ci si affida a veicoli quali il tempo e la memoria, sottoposti a distorsioni ed ambiguità connaturate all'essere umano e alla sua endemica incapacità di osservare il mondo. O, peggio ancora, di rivolgere il proprio sguardo verso stesso.
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