"Velocità, io sono velocità". E quando vivi di adrenalina, e nelle tue vene scorre benzina pura, allora il confine tra vita e gara, sedile e natura, fanali e luce solare si annulla, riducendosi al grado zero. Enzo Ferrari, Niki Lauda, James Hunt, Carroll Shelby e Ken Miles hanno eliminato il guardrail che separava l'adrenalina della pista a quella della sfera privata: la professione di patron, di pilota, di campione o perdente si lega a quello di essere umano, senza scarti, o differenze. E così, nel mondo del cinema, dove il sogno si mescola alla realtà, il biografismo di uomini che odorano di sudore acre misto a carburante, si fa materiale perfetto per illuminarsi di luce di proiezione e rivivere una seconda volta lì, sulla pista della settima arte, lungo il circuito della sala, lanciati a velocità per scontrarsi con lo sguardo dello spettatore.
Eppure, anche quando la fantasia prende il sopravvento, facendosi largo tra avversari bramosi di successo, o di vendetta, ecco che magicamente si avvia il processo di de-personalizzazione: l'individuo perde la propria specificità per tramutarsi in parte integrante della scatola meccanica che lo ingloba. Senza nome, o incastrato nel ruolo che quelle corse gli hanno affibbiato, il protagonista fa dell'auto un arto ipertrofico della propria esistenza. Tanto Ferrari, quanto Lauda, o il pilota senza nome di Drive, si fanno pertanto della stessa sostanza di cui sono fatte le immagini mentali che di loro si stagliano nei pensieri degli altri. Piloti, icone, essenze umane imprigionate sul sedile dell'auto, questi personaggi si ritrovano incapaci di vivere al di fuori dell'ambiente automobilistico che li ha visti nascere, crescere, modellarsi e mutare. Sono uomini incapaci di vivere senza l'adrenalina della corsa, tanto quanto sono incapaci di respirare senza ossigeno: in loro pompa benzina, ed è proprio sulla scorta di questa incapacità di slegare gli addendi, ed eliminare l'unione di due gameti (quello delle corse, e quello personale) che il cinema si fa cantore di tali esistenze, narrandone cadute, risalite e aspetti intimi di solito ignorati, così da svelare l'umana fragilità di cuori che battono al ritmo di marce ingranate e chilometri macinati da ruote ormai usurate.
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Ferrari, o la narrazione dell'uomo nascosto dietro il cavallino
Enzo Ferrari è un nome che va oltre la storia di un uomo per eternizzarsi in quello di un simbolo iconico, impresso per sempre nella cultura tanto nazional popolare, quanto mondiale. Enzo Ferrari perde così il nome proprio di persona per incarnarsi in un cavallino nero rampante: rinchiuso nello stato di un logo, l'uomo vivrà per sempre nello spazio di un team automobilistico, nel rumore assordante di un motore acceso, di cavalli lanciati in corsa lungo rettilinei extraurbani. Dinnanzi a un bivio narrativo, Michael Mann poteva decidere se focalizzarsi sull'uomo, oppure sul mito: con Ferrari il regista decide di insidiarsi nello strato epidermico del proprio protagonista, così da lasciare fuoriuscire quell'essere ibrido nato dal sogno di vittoria, e la caduta di legami familiari ormai sbrindellati. Le corse ci sono, ma non sono i successi di Niki Lauda, Ayrton Senna, o Michael Schumacher a stagliarsi sul grande schermo.
Nel Ferrari di Michael Mann la cinepresa non si sporca di spumante, e non si colora di verde alloro. Nel Ferrari di Michael Mann la cinepresa si pone alla ricerca di dettagli corporei, come le mani, o gli occhi di Adam Driver nascosti dietro lenti nere, per richiamare a sé quella natura umana che il mito ha già inghiottito. Le gare, la preparazione, il lutto e gli incidenti: nessun trionfo nel mondo di Ferrari, solo tragedie, cadute, botte allo stomaco. E per un'esistenza votata alla propria professione, anche lo sguardo all'ambiente familiare risente dello stesso trattamento. I tradimenti, la doppia vita, i figli nascosti, e quelli venuti a mancare (l'amato Dino) sono le fila trainanti di una biografia non certo agiografica, ma volta a scavare oltre la superficie dorata dell'icona, per raggiungere l'uomo fallace, fragile, che sbaglia. Pur peccando di notevoli lacune e di una notevole superficialità narrativa, ciò che rende interessante il Ferrari di Michael Mann è la sua capacità di mostrare ulteriormente quanto l'entità umana spesso vada di pari passo - fino a fondersi - con quella professionale. Una strada a senso unico, senza doppie corsie, in cui la macchina della vita sfreccia insieme - e a bordo - a quella delle corse, per un viaggio senza deviazioni, ma sempre insieme, dritti, mano nella mano.
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Rush e Le Mans '66: la simbiosi della lotta all'interno di un'auto
Ci sono elementi imprescindibili alla buona riuscita di un biopic dedicato ai piloti automobilistici; sono ingredienti di cui non si può fare a meno, soprattutto se al centro di queste esistenze batte il cuore di una lotta intestina, un duello decennale, una sfida immortale. Eppure, la paura di non rendere abbastanza il timore, l'ansia, il legame simbiotico tra pelle e asfalto, tra pilota e vita normale, rimane costantemente presente, vagando come un fantasma a ogni ciak battuto, o a ogni gesto compiuto. O si vince a mani basse, doppiando tutti i timori iniziali, oppure si perde miseramente. Non c'è via di mezzo. Ma sia James Mangold (Le Mans '66) che Ron Howard (Rush) come piloti navigati, conoscono bene la pista su cui si apprestano a lanciarsi a folle velocità; prevedono a menadito lo stringersi di ogni curva, anticipano gli ostacoli, evitano derapate inutili ed errori da principianti. La loro macchina da presa è un bolide che i due guidano con facilità: la pellicola, è una benzina di celluloide che brucia alimentando una storia capace di colpire a centocinquanta chilometri all'ora il proprio pubblico.
Tanto quella di Le Mans '66, che di Rush, è una scuderia destinata a portare a casa una vittoria schiacciante, forte della presenza di primi piloti come Christian Bale, Matt Damon, Chris Hemsworth e Daniel Brühl. In entrambe le pellicole si vive di motori, per respirare umane fragilità. Il tema della lotta e della sfida si fa punto di infiammabilità di opere capaci di mostrare i dubbi, i tormenti nascosti dietro cuori coraggiosi che sfidano quotidianamente la morte, curva dopo curva. Sebbene si insinui, silente, l'orgoglio patriottico di un'America che ama mostrarsi vincitrice (Le Mans '66) o che organizza il racconto a proprio piacimento (Rush), le due opere riescono a tenere il proprio grip sull'asfalto, senza cadere nel terreno fangoso dell'autocelebrazione.
Il mondo di Shelby e Miles in Le Mans '66 - La grande sfida è un dipinto che odora di benzina, colorato da una fotografia color seppia rimembrante i fanali di un'auto d'epoca che illumina la strada del successo. Un film a stelle e strisce, quello di Mangold, che dal retaggio storico recupera perfino la corsa all'oro e il mito della frontiera. Eppure, a far battere questo cuore cinematografico, è soprattutto il dualismo tra due uomini posti agli antipodi di un mondo adrenalinico che si sveste del biopic canonico per sfrecciare lungo percorsi inediti e avventurosi, sebbene sponsorizzati dal solito sogno americano, e dal mito del self-made man. Un percorso a ostacoli e tortuoso in cui la simbiosi del pilota con la sua macchina, del mentore e la sua squadra, si fa essenza unica, indistinguibile nelle sue parti. Se la vita, come afferma Miles, "corre a 7mila rpm", quella di questi due personaggi è un incrocio davanti a cui è impossibile fermarsi. Bisogna accettare lo scontro, il dolore del diverbio, per assaporare appieno il gusto del successo. Un braccio di ferro che, ancor prima di Mangold, aveva già saputo narrare Ron Howard con il suo Rush.
In due ore e mezza il regista condensa anni di fatica, preparazione e lacrime, reiterando la medesima escalation di tensione e adrenalina che aveva alimentato un'altra tipologia di sfida come quella di Frost/Nixon - Il duello. Giro dopo giro, gara dopo gara, Howard prende per mano lo spettatore per accompagnarlo alla scoperta di due personalità così complesse e agli antipodi come quelle tra Niki Lauda (Daniel Brule) e il playboy britannico James Hunt (Chris Hemsworth), fino a evidenziare tra le tante divergenze, anche i punti d'incontro, una su tutte quella dipendenza per l'adrenalina e il rumore delle ruote sull'asfalto che porteranno lo stesso Lauda a cadere vittima di uno degli incidenti più noti e terribili della storia della Formula Uno.
Lasciando da parte la cronaca puramente sportiva, Howard si dimostra abile nel cogliere l'essenza della competizione e dello stato di profonda euforia che rilascia la corsa automobilistica, per poi indagare a fondo le paure e i timori che affliggono i due protagonisti poco prima del semaforo verde. Un'indagine introspettiva dove due poli così opposti non possono far altro che attrarsi a vicenda, per poi annullarsi. Quelle attraversate da Hunt e Lauda non sono piste, ma sistemi binari, due facce di una stessa medaglia; e a unire queste due metà è sempre uno spirito di sopravvivenza, misto all'esigenza di vittoria e alla dipendenza per la corsa. Perché quando baratti la tua vita per un casco e una tuta, tutto il resto svanisce. Il tuo essere si riduce a un nome sulla carrozzeria, e a un cognome da prestare alla bocca di ammiratori urlanti. E se tutto va bene, anche alle pagine della Storia, quella con la S maiuscola.
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Drive: lo scorpione senza nome
Non ha nome il pilota interpretato da Ryan Gosling nel cult di Nicolas Winding Refn, Drive. Nel suo personaggio professione e umanità vanno a braccetto, fino a mescolarsi e unirsi in una sostanza sola. È l'autista che si fa uomo, e l'uomo che si fa parte integrante della carrozzeria del proprio bolide. È il raggiungimento massimo della commistione dell'uomo e del suo ruolo da pilota, reso tale in un film del tutto estraneo a una volontà di carattere biografico, ma puramente narrativo. Refn, grazie al suo protagonista taciturno ed enigmatico, pesca a piene mani nell'immaginario cinematografico (uno su tutto il rimando al Driver l'imprendibile di Walter Hill) per tracciare luci e ombre insidiatesi in un Ryan Gosling perfettamente incarnante un uomo prestato al crimine, archetipo del duro dal cuore d'oro e animato da un profondo senso di moralità. I primi minuti del film sono un prologo perfetto, e allo stesso tempo un'introduzione concisa e approfondita, di quello che sarà sia il decorso del film, che l'essenza del suo protagonista: silenzioso, anonimo, l'uomo trova se stesso e il suo essere impeccabile nello spazio della sua macchina.
Ryan Gosling: l'ultimo, solitario eroe romantico del cinema
In questo noir metropolitano, l'anti-eroe di Gosling non vive di legami interpersonali (salvo l'Irene di Carey Mulligan), ma solo di quelli che riverberano da un dosso sulla strada, o che vibrano al tocco del suo volante. È un personaggio così distante, freddo e glaciale quello di Ryan Gosling che pare quasi impossibile stabilire un legame affettivo con lui, eppure basta un'occhiata fugace, una sterzata improvvisa, o una camminata sicura, che ecco che cadiamo vittime della sua silenziosa ragnatela. Siamo prede della sua concentrazione, del suo sguardo riflesso sullo specchietto, della sua intelligenza e profonda sicumera. Uomo che affida ai gesti e alla potenze delle azioni - piuttosto che alle parole - il significato dei propri pensieri, il protagonista di Drive è uno scorpione che tenta di aggrapparsi alla farfalla Irene, per poi cadere vittima della sua indole mortifera. Un carattere solitario, il suo, che sanguina e fa sanguinare, trovando la forza della propria essenza solo a contatto di una macchina. Una personalità dedita alla velocità e al compimento dei propri obblighi, la sua, un braccio di ferro tra pensare e agire, compiere e guidare, che fa del Ryan Gosling di Drive essenza meccanica, automa umano, macchina con un cuore e un'anima, abbigliata di un giaccone con impresso uno scorpione dorato.