Tutto è iniziato quindici anni fa con Shakespeare in love di John Madden. Dopo averlo visto Alexis Michalik ha iniziato a chiedersi perché non fare anche con un autore del teatro francese, ciò che Madden aveva fatto con William Shakespeare e il suo Romeo e Giulietta. Così nasce Cyrano, mon amour, commedia con ritmi da vaudeville con cui il regista racconta la genesi di una delle piece più rappresentate nel teatro di Francia: Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand.
Non un semplice biopic - e ve ne abbiamo parlato nella nostra recensione di Cyrano mon amour - ma "un sorta de Il meraviglioso mondo di Amelie ambientato in epoca moderna, in una Parigi Parigi molto idealizzata, immaginata, quasi da favola". Un film girato tra gli interni di caffè e quinte teatrali, ad eccezione dell'ultima scena. Il motivo? "Volevo spiazzare lo spettatore, un po' come succede quando a teatro si è talmente tanto dentro la storia da dimenticare dove si è", ci racconta Michalik durante lo scorso Rendez-vous Festival dove il film è stato presentato prima del suo passaggio in sala.
Cyrano mon amour, la recensione: La genesi di Cyrano de Bergerac
Un'opera senza tempo: tra biopic, vaudeville e omaggio al teatro
In una delle battute del film Rostand dirà: "Il teatro è in crisi per il cinema". Estendendo il parallelismo a oggi potremmo parlare di un cinema in crisi perché nuovi linguaggi stanno prendendo piede?
All'epoca l'arrivo del cinema sembrò una cosa assolutamente incredibile. Edmond però si sbagliava, perché il teatro non è morto. Realizzare prodotti artistici destinati alla tv, allo schermo di un Pc o di un telefonino, per me è sempre cinema; sarà diverso il mezzo, ma resta il racconto filmato di una storia. Il cinema non morirà, avrà un'evoluzione, ma resterà un modo di raccontare storie attraverso un video: che sia quello della tv o del grande schermo poco importa.
Cyrano mon amour è più cose insieme: è una commedia di costume, il making of di un'opera teatrale, è biopic e riflette sul cinema, sul teatro, sull'amore. Da dove è partito?
Tutto è cominciato quando ho visto Shakespeare in love venti anni fa, ho pensato quanto fosse geniale e perché non ci avevamo ancora provato con un autore di un'opera francese. Poi ho letto Cyrano de Bergerac, che è una delle mie opere favorite, e ho scoperto che Edmond Rostand lo aveva scritto ad appena 29 anni e che nessuno aveva mai creduto in lui. Non volevo farne un documentario, ma un omaggio a quell'epoca e a Edmond Rostand. Anche io, come Rostand aveva fatto con Cyrano, personaggio realmente esistito, ho creato un mix di personaggi reali, gli attori e gli autori dell'epoca, e personaggi inventati. Raccontare come Rostand avesse creato Cyrano era anche un'occasione per parlare della creazione di un'opera teatrale. Ho voluto mettere in questo film l'essenza di Cyrano: il romanticismo, l'eroismo, il triangolo amoroso e la memorabile scena del balcone.
Una della attrici, poco prima di andare in scena, dirà: "Per noi attori non esiste il domani, esiste il pubblico, lo spettacolo, il momento. Siamo artigiani dell'effimero". E il regista chi è?
Per me è un creatore. Mi piace definirmi un narratore di storie, non solo un regista. Facendo entrambe le cose non vedo differenze tra la creazione e la messa in scena, quello che faccio è trasmettere delle storie che mi hanno toccato e commosso, reali o immaginarie che siano.
Dal teatro al cinema
Lei viene dal teatro, come è stato confrontarsi con il linguaggio cinematografico?
Che si tratti di un'opera teatrale o cinematografica ogni spettatore reagisce in maniera diversa, ma soprattutto sono due ore in cui ci si dimentica del mondo fuori e ci si immerge in qualcos'altro. Non vedo molte differenze tra lavorare per il cinema e per il teatro, anche se sono mezzi diversi. Ciò che uso, sia al cinema che a teatro, è dirigere degli attori, raccontare una storia e creare una troupe che funzioni. I modi di raccontare cambiano, i budget sono diversi, ma il lavoro è identico.
Louis Jouvet diceva: "A teatro si recita, a cinema abbiamo recitato": una volta finito un film non si può cambiare, al cinema quel che è fatto è fatto, a teatro invece si va in scena ogni sera e ogni sera è diversa. È l'arte dell'effimero, ma Edmond o Shakespeare sono ancora in scena. Il teatro forse è più atemporale del cinema, perché difficilmente i film resistono al tempo, sono più legati al momento storico in cui vengono realizzati. Forse è proprio nel rapporto con il tempo che teatro e cinema sono diversi.
La rivalità tra Rostand e Georges Feydeau a cui si fa riferimento nel film è reale o immaginata?
Non c'era una vera competizione tra i due, ma avevo bisogno di trovare la nemesi di Rostand e Feydeau era la sua perfetta antitesi. Rostand non aveva mai conosciuto il successo, componeva in versi alessandrini, non aveva mai scritto nessuna commedia e si considerava un fallito, mentre Feydeau era una star del teatro, autore di commedie molto popolari. In Cyrano Mon Amour l'ho solo reso un po' più arrogante perché funzionasse da contrappunto all'immagine del protagonista e in fondo l'ho anche omaggiato con quella scena da vaudeville con porte che si aprono e si chiudono freneticamente.
Come mai ha deciso di ritagliare per sé proprio il ruolo di Feydeau?
Mi diverte sempre interpretare ruoli da stronzetto! E come lui anche io sono un autore teatrale, mi piaceva questo gioco di coincidenze.
Che riferimenti cinematografici ha avuto?
Ho sempre amato i grandi classici, da Via col vento a Billy Wilder: c'erano dialoghi, commedia e ritmo. E non è un caso che questo film abbia un ritmo nervoso e incalzante, ho voluto farlo così proprio per quegli spettatori che considerano il teatro un luogo noioso e polveroso. Abbiamo usato la steadycam seguendo da vicino gli attori e abbiamo filmato soprattutto con molti piani sequenza per conservare l'idea della compagnia teatrale. Volevo fare un film che non fosse datato o ancorato a questo momento storico, che fosse atemporale: mi piaceva l'idea che potesse essere visto indipendentemente dall'epoca in cui è girato, un po' come Cyrano. Nello stesso tempo è un omaggio al cinema americano anni cinquanta, ho insistito molto sul ritmo e sul movimento.
Possiamo considerare Edmond un genio sfigato?
È un fallito nobile ed ha un eco particolare su noi francesi. Ci piace chi perde con eleganza, siamo sempre dalla parte dei perdenti e dei resistenti più che dalla parte dei vincenti. Se qualcuno inizia ad avere successo, cominciamo a guardarlo con diffidenza.