Due persone, una donna che gestisce un albergo e un uomo misterioso, magnetico quanto pericoloso. Un volo a novemila metri d'altezza. Un piano criminale architettato nei minimi dettagli, la donna che si scopre coinvolta suo malgrado e l'aereo che si trasforma improvvisamente in una prigione. Sono pochi gli elementi di base di questo lavoro di Wes Craven, dal 22 marzo disponibile anche su Netflix, prima incursione nel thriller psicologico da parte di uno dei registi che negli anni '80 reinventarono il genere horror: un'essenzialità che, nelle mani di Craven, diventa materia prima per l'ennesimo saggio sulla gestione degli spazi e dei tempi della suspence, come vedremo nella recensione di Red Eye, con lo scatenamento di un mortale gioco a due che è psicologico e di nervi prima che fisico.
Lisa e la paura di volare nella trama di Red Eye
Protagonista del film è Lisa, la dirigente di un albergo di lusso di Miami in trasferta verso Dallas, il cui volo di ritorno a casa subisce un ritardo. Nell'attesa del ritorno, Lisa conosce Jackson, il suo vicino di posto a bordo dell'aereo, che le rivela di far parte di una cellula terroristica che ha l'obiettivo di assassinare il vicesegretario alla Sicurezza Interna degli USA, che ha in programma di soggiornare proprio nell'hotel dove lavora Lisa. Jackson vorrebbe che Lisa usasse la sua posizione nell'albergo per cambiare la suite in cui l'uomo dovrà alloggiare per agevolare l'attentato, minacciandola. Lisa cerca di attirare inutilmente l'attenzione degli assistenti di volo e degli altri passeggeri, ma sarà alla fine costretta a cedere alla minaccia?
Craven e la paura di volare
Craven, pur addentrandosi apparentemente in un territorio non suo, riesce ancora una volta a giocare egregiamente con le fobie dello spettatore: in questo caso, è la paura di volare a entrare nella lente di ingrandimento del regista di Cleveland, paura della perdita di contatto con la terra ma anche di cedere il controllo della propria vita a qualcun altro, con la claustrofobica impossibilità di fuggire da un luogo che è tanto ristretto, opprimente ma vitale quanto vasto (e mortale) è lo spazio esterno. La protagonista Lisa è il soggetto ideale per lo sviluppo di questo tema, donna d'affari, pratica e insofferente alle intromissioni di chicchessia nella sua vita privata quanto fragile e spaventata quando il controllo che affannosamente cerca di mantenere le viene strappato via da un semplice quanto necessario mezzo di trasporto. E la fobia, per una volta, si rivela giustificata: c'è infatti ben più di qualche ora di tensione ad attendere Lisa su quel volo, c'è una mente lucida e folle che cerca di plagiarla, ma c'è ancora una volta, più concreta che mai, la consapevolezza raggelante di non avere vie d'uscita.
La gestione dei tempi narrativi
La regia, in tutta la parte ambientata sull'aereo, sottolinea la ristrettezza dello spazio in cui si svolge l'azione ed enfatizza il suo senso di ineludibile angoscia, con inquadrature ravvicinate (dettagli o primi piani alternati sul volto della donna e del suo carceriere) che comunicano quasi "fisicamente" tutta la claustrofobia della situazione. Il regista si dimostra ancora una volta abilissimo nella gestione dei tempi narrativi e nella perpetuazione fino al parossismo della tensione scaturita da una semplice situazione di partenza. Quando l'aereo atterra, il confronto si sposta nel campo aperto del centro cittadino, e parte della perfetta alchimia finora creata viene inevitabilmente persa: tuttavia, il lungo inseguimento per le vie cittadine è teso e ben diretto, anche se coinvolge in modo sicuramente più convenzionale rispetto alla parte precedente. Con un soggetto di questo genere, la recitazione e il lavoro sugli attori giocano inevitabilmente un ruolo fondamentale: Rachel McAdams e Cillian Murphy, rispettivamente vittima e carnefice, rispondono alla prova in modo adeguato, specie nella graduale trasformazione dei rispettivi registri di recitazione nel momento in cui la natura della vicenda diviene chiara.
Potrebbe forse essere definito un lavoro "alimentare", questo Red Eye, un film su commissione necessario a Craven per recuperare credito presso pubblico e critica dopo il fallimento del suo precedente Cursed. Eppure, il regista è riuscito a non lasciarsi imbrigliare nelle maglie del genere, facendo vedere sprazzi del suo tocco e soprattutto mettendo ancora una volta in mostra tutta la sua grande perizia tecnica: non è sicuramente poco per un film che si presentava, sulla carta, come una semplice divagazione "di genere".
Conclusioni
Nella nostra recensione di Red Eye abbiamo visto come Wes Craven sia riuscito anche in questo film a giocare con le fobie dello spettatore, nello specifico con la paura di volare, della perdita di contatto con la terra oltre che a quella di cedere il controllo della propria vita a qualcun altro. Craven lo fa con una regia in grado di sottolineare lo spazio ristretto in cui si volge l’azione, enfatizzando il senso di angoscia con inquadrature ravvicinate che comunicano la claustrofobia della situazione e gestendo con abilità i tempo narrativi.
Perché ci piace
- La capacità di giocare con le fobie dello spettatore.
- La tecnica che sottolinea gli spazi ristretti e il senso di claustrofobia.
- La prova degli attori, fondamentale con questo tipo di soggetto.
Cosa non va
- La natura di film su commissione che però Craven gestisce senza lasciarsi imbrigliare dal genere.