Siamo a fine agosto in quel del Lido di Venezia, ma non è il caldo torrido a metterci alla prova mentre saliamo l'ampia scalinata del Palazzo del Casinò, quanto l'appuntamento che ci attendo: l'intervista al maestro del cinema giapponese Kiyoshi Kurosawa, che seguiamo con ammirazione da sempre. Scalino dopo scalino ci vengono in mente le sue opere: Pulse, Tokyo Sonata, Cure (che tra l'altro è arrivato nelle nostre sale, colpevolmente in ritardo, proprio questo mese), ma anche il nuovo titolo presentato proprio alla Mostra del Cinema di Venezia, Cloud. Ci ripetiamo che non è il suo film più riuscito, eppure da quando l'abbiamo visto continua a tornarci in mente.

È la storia di Ryosuke Yoshi, che lavora in una piccola azienda, ma guadagna soprattutto come rivenditore online con il nickname di Ratel, vendendo di tutto dalle borse a materiale medico ed action figure. Per lui c'è un'unica regola, alla base dei suoi affari: comprare a poco e rivendere a prezzo nettamente maggiorato. Quando questa attività online ha un boom, Ryosuke lascia il suo lavoro ufficiale per dedicarvisi, ma le cose finiscono presto per sfuggirgli di mano.
Come nasce Cloud di Kiyoshi Kurosawa

La prima curiosità, la prima domanda che poniamo a Kiyoshi Kurosawa riguarda la genesi del progetto, di un film che ci è apparso da subito diverso da quello a cui il regista ci aveva abituati. "Il punto di partenza è stata la mia voglia di girare un film d'azione, come quelli che fanno a Hollywood" ci ha detto Kurosawa, "ma non volevo farlo in modo convenzionale parlando di yakuza e mafia o di militari. Volevo parlare di gente comune, che porta avanti una vita normale e finisce per trovarsi nel mezzo dell'azione." Un punto di partenza molto interessante e spiazzante, a cui il regista ha abbinato una componente reale: "ho attinto anche alla realtà, incuriosito dalle notizie di persone che partendo da internet e dalla violenza virtuale passa ad azioni reali, ma anche ai tanti rivenditori online che vanno per la maggiore anche in Giappone. Tanti ingredienti che ho messo insieme per fare un film d'azione."
La "normalità" della sequenza d'azione
E proprio all'azione ci ricolleghiamo, ripensando alla complessa sequenza d'azione finale. Quanto è stato difficile girarla? "Le parti d'azione sono sempre quelle più difficili, oltre che ovviamente anche le più costose dei film, perché parallelamente va pensato anche alla sicurezza di tutti sul set. Però devo dire che in questo caso è stato piuttosto semplice, perché non si trattava di fare acrobazie spettacolari, perché dovevo mettere in scena persone normali che magari vedevano una pistola per la prima volta nella sua vita." Si torna al punto precedente, al voler raccontare persone normali in situazioni straordinarie. "In questo senso è stato piuttosto facile da riprendere, perché non richiedeva tecniche o stunt fuori dal comune" ma piuttosto un'ordinarietà e normalità dell'azione.

Persone normali in situazioni straordinarie, quindi, anche in quanto all'azione, ma come ha scelto il cast per ottenere questo effetto? "Mentre scrivevo la sceneggiatura, pensavo che sarebbe stato interessante avere come protagonista Masaki Suda, ma ancora non sapevo se sarebbe stato possibile. Quando ho avuto l'occasione di fargli leggere lo script, ha accettato subito e ne sono stato contentissimo. È uno degli attori più popolari oggi in Giappone, ha fatto qualunque tipo di ruolo ed è bravissimo. È riuscito a mostrare un'ambiguità che ha la gente comune, senza mostrarsi né buono né cattivo. Con la maggior parte degli altri attori era la prima volta che lavoravo e mi hanno stupito tutti in positivo."
Lasciare il segno

Come detto anche in apertura, Cloud non è il nostro film preferito di Kiyoshi Kurosawa, ma è comunque un titolo che ci è rimasto dentro, a cui abbiamo continuato a pensare per giorni dopo la visione. È la forza di un grande autore, che sa lasciare il segno. Secondo lui è importante che un cineasta abbia questa capacità, che riesca a infilarsi sotto la pelle dello spettatore? "Non ragiono spesso su cosa pensano gli spettatori, perché se ci pensassi troppo non riuscirei più a fare i film. Però per mia attitudine lascio sempre un'apertura, lascio sempre qualcosa in sospeso che lo spettatore può interpretare. Secondo me è necessaria una partecipazione di chi guarda, che usi la sua fantasia per andare a riempire i vuoti." Ed è un modo di lavorare che a noi ha sempre colpito molto.