Storie che fanno il giro, e poi ritornano. La precisione dello storytelling, oggettivo e puntuale, tanto nella scrittura quanto nell'esposizione. Al centro, una realtà geografica complessa, a tratti brutale, ma che riesce a regalare momenti di speranza e di bellezza. E poi un ritorno, dopo essere stato "fuori" dai palinsesti del servizio pubblico. Il ritorno in questione è quello del giornalista Domenico Iannacone, che su Rai 3 è protagonista di tre prime serate con il suo Che ci faccio qui, affrontando - a distanza di anni - un viaggio in quella "terra dai forti contrasti" chiamata Calabria. In mezzo, un incrocio di storie e di persone, che Iannacone segue da vicino, senza mai prendersi la scena. Dote rara, in un'epoca di giornalisti ego-smodati.
Con un titolo che sembra tanto una domanda retorica, Che ci faccio qui, ideato dallo stesso giornalista, e prodotto da Ruvido Produzioni, scoperchia allora la realtà calabra lungo un percorso suddiviso in tre puntate, alternando la vicenda dell'imprenditore Antonino De Masi, ancora sotto scorta, resistente e coraggioso; Bartolo Mercuri, commerciante di Gioia Tauro che "non ha mai smesso di aiutare i migranti di Rosarno"; l'umanità piegata di una tendopoli o la vita ai margini di Alì, bracciante schiavo e invisibile. Iannacone unisce tutto, spinto dalla necessità di prendere posizione, raccontando, per immagini e parole, la realtà delle cose. "L'oggettività è dettata dalla presenza reale di qualcosa", ci dice il giornalista, al telefono, durante la nostra intervista. "Se racconto una storia, devo andare in quel luogo, toccando con mano ogni cosa, capendo il quadro reale della situazione. Non è una cosa social, che emana una sentenza senza rintracciare una vera trasformazione. L'oggettività si manifesta attraversa la presenza. E cito Giorgio Bocca, autore di testi straordinari, faceva vivere i luoghi attraverso le parole".
Che ci faccio qui: intervista a Domenico Iannacone
Con Domenico Iannacone, partiamo da un punto focale legato alla narrativa giornalistica attuale, schiava di un'apparenza dettata dal bisogno dei giornalisti di mostrarsi, anteponendo sé stessi alla storia raccontata e anteponendo le domande alle risposte. "Lavorando al progetto mi sono detto: devo raccontare le cose senza essere protagonista. Non voglio prevalere. Eppure il giornalismo, oggi, si sta troppo specchiando, dimenticando cosa ha di fronte. Diventa un'auto-celebrazione del giornalista stesso", ci dice, trovando la nostra approvazione. "C'è stata una degenerazione, se non vai in video entri in astinenza, penso ad alcuni colleghi che vanno in astinenza se non appaiono. Questi due anni e mezzo di assenza dalla tv non li ho vissuti con angoscia, ho sofferto però il non poter raccontare storie", prosegue. "Nella mia narrazione vado spesso a smussare la mia presenza. Parlo poco, assisto, utilizzo la maieutica socratica. Sto attendo alle testimonianze, agli occhi delle persone, senza giudicare. Rompendo la barriera tra chi racconta una storia e chi l'ascolta. I protagonisti si dimenticano delle telecamere, e me ne dimentico io. E ritrovo una pienezza di un rapporto non contaminato dall'ego. Oggi, che tutti vogliono vivere di luce riflessa".
"Il servizio pubblico? Oggi è pieno di malumori"
Domenico Iannacone torna in Rai dal 2019, dopo la prima stagione di Che ci faccio qui, portato successivamente a teatro. Che tipo di servizio pubblico ha ritrovato, a distanza di cinque anni? "Ho trovato un servizio pubblico pieno di malesseri e malumori. Anche pieno di fazioni. Mi ha fatto un po' male. In questi due anni e mezzo c'è stata una degenerazione del dibattito. Non solo giornalistico ma anche politico. Il servizio pubblico dovrebbe essere una luce, un faro. Invece qui ci sono tante fazioni, e la mia idea di racconto televisivo rivendico qualcosa di politico. Politico, nel valore più alto del termine: chi si occupa del valore umano delle cose. Bisogna essere sintetici, riportando l'oggettività dei fatti".
In viaggio verso la Calabria
Un ritorno, quello di Iannacone, che lo ha riportato in Calabria. Quel Sud Italia spesso sfruttato come pretesto, nonché utilizzato scusante politica nascosta da una promessa elettorale. Una Calabria, definita dal regista, come "La cartina al tornasole del sud. Una terra che vive di situazioni ambivalenti. Mafia, mancato sviluppo, povertà. I luoghi dello sfruttamento della mano d'opera. Sono temi rimasti sul tappeto, e dopo sette anni non posso che dire di aver trovato un arretramento. La situazione è più dura, la mancanza di dignità è aumentata. Alì, che vedere nel reportage, è il manifesto di quella situazione. Un prototipo di chi è arrivato per ragioni di bisogno e non è stato accolto come si doveva. La situazione è persa. Antonio De Masi è ancora scortato. Insomma, una situazione da Nicaragua".
Tuttavia, non manca la bellezza. "Per una questione di ribaltamento, poi ci sono cose che ti lasciano senza fiato: il Parco Museo Musaba che si trova a Mammola, fondato da Nik Spatari, artista sordo e autodidatta, insieme alla moglie Hiske Maas. Sui ruderi di un monastero hanno fatto nascere una visione, osteggiati da tutti. Oggi quel luogo rappresenta l'arte della Calabria. Un'azione forte, con la bellezza che decontamina tutto. Poi a Cosenza, dove incontriamo una realtà incredibile: una start-up acquisita da un gruppo giapponese, ora con un ruolo centrale che punta a progetti enormi. 400 giovani regolarmente assunti, tra cui Gianluigi Greco, referente per l'AI in Italia. Quello che sembra perduto da un lato, poi però stupisce dall'altro. Un viaggio che addolora, ma che poi lascia senza fiato".
L'Europa che non c'è
Il Sud Italia, tra l'altro, è la porta meridionale dell'Europa. La stessa Europa che pare aver perso i suoi punti di riferimento, qualora li abbia mai avuti davvero. Per questo, Che ci faccio qui sembra tirare fuori dall'ombra la vera realtà europea, lontana dall'accettazione e lontana dai bisogni dei popoli. Un tema su cui riflette il giornalista. "La vera identità dell'Europa non viene fuori, perché è già molto disomogenea, come un elemento caotico, e oggi le cose non vengono trattate con accortezza. Oggi stiamo affrontando un problema di spazio che deve essere garantito, e ci stiamo occupando dei confini. Al d là di questo manca un'identità vera e propria, e per trovarla l'Europa dovrebbe prendere ispirazione dalle carte costituzionali dei Paesi".
In chiusura, una suggestione. Dopo il teatro e la televisione, anche il cinema nel futuro di Domenico Iannacone? "Qualcuno me lo sta chiedendo... mi sto rendendo conto di nutrirmi più di cinema che di televisione, ultimamente. E questo mi avvicina al grande schermo...". Speriamo, che di giornalisti bravi (e credibili), oggi ce n'è bisogno un po' ovunque.