Che Il codice Da Vinci sia un fantasmagorico successo su scala mondiale, sia nella sua versione cartacea che (anche se in misura lievemente minore) in quella cinematografica, è indubbio. E, nel nostro mondo d'oggi, in particolare nel business, chi fa la grana ha sempre ragione.
Ma ci permetterete di ritagliarci un nostro modesto spazio per sovvertire le regole meccaniche del mainstream cinematografico per rifugiarci là dove il soldo conta molto poco, anzi, quasi nulla; il modesto angolo della critica cinematografica.
E' proprio in quel contesto, sicuramente travolto e oscurato ai più dall'eco mediatico, ma pur sempre esistente e duro a spezzarsi, che il Codice non solo si decritta in maniera estremamente veloce, ma irrita anche un po' per la sua banalità. Ci muoveremo sicuramente in questo campo, a partire dal contesto in cui il film di Ron Howard si va ad inserire.
Sulla terza di copertina dell'ormai celeberrimo libro, apprendiamo che il buon Dan Brown è "professore" e "autore di numerosi libri". Non ci è concesso sapere dove insegna né quali pubblicazioni abbia firmato. Il fatto di per sé non va ad inficiare sulla scorrevolezza e godibilità di un libro che si fa leggere volentieri, ma lascia un po' perplessi di fronte all'ormai mitica pagina nove del libro. Mitica perché, mistero dentro al mistero (ma anche no), presente fino alla sesta edizione del volume, dalla settima in poi - grosso modo due edizioni dopo l'affermazione planetaria - è sparita dalle pagine del libro. Pagina 9, annoverata tra quelle di presentazione e ringraziamento, sosteneva che tutti i riferimenti storico/spaziali presenti nel libro, fossero assolutamente corretti e verificabili.
Da qui la perplessità sulla scarna biografia di Brown, avvalorata dal fatto che lo scrittore si lascia andare a note e fatterelli storici la cui improbabilità risulta chiara anche ai profani del genere. Come il fatto che Parigi sia stata fondata dai romani, o quella ancora più clamorosa della costruzione della cattedrale di San Sulpicio sulle rovine di un tempio egizio (!!). Il successo clamoroso che il libro del misconosciuto autore ha riscontrato, si deve in buona parte alla pregiudiziale di veridicità e verificabilità che l'autore imponeva al proprio lettore. Facile verifica di quello che si sta sostenendo sono le pubblicazioni fiorite a latere del Codice, tese nella quasi totalità a smentire qualsivoglia radice storica del libro, segno di come la storicità delle fonti fosse perno cruciale del libro.
L'importanza della verificabilità si unisce all'argomento esoterico trattato, alla teoria complottistica sulla quale si immagina sia fondata la più grande istituzione umana mai esistita: la Chiesa.
E' l'unione tra questi due elementi che ha permesso a un romanzetto da bancarella di assurgere a best seller di livello mondiale. Il successo impresso da questa duplicità di fattori narrativi si è rivelato talmente travolgente che, a partire dalla settima edizione, si è potuta facilmente eliminare pagina 9, cioè la pregiudiziale di storicità, uno dei due elementi fondanti nell'architettura dell'operazione editoriale. Poco importa che sarebbe venuto a crollare anche in toto la teoria del complotto, posta a fondamento della trama. Ormai il "caso" era stato lanciato, e il libro di Dan Brown non necessitava più di una ulteriore componente "esterna" alla narrazione, come poteva essere la pretesa di verificabilità, per continuare a vendere.
Un prodotto editoriale da cinquante milioni di copie non può non essere cannibalizzato dal cinema. E, per un caso così eclatante, non c'è nemmeno il tempo di riflettere, di lasciar scemare un attimo il fenomeno, di considerare con distacco il da farsi. Bisogna immediatamente sfruttare l'ondata, buttarsi sulla scia di quel che il libro ha indicato. La frenesia di rincorrere il successo editoriale ha portato a ricalcare passo passo quello che era l'intreccio narrativo della storia di Brown, ricostruendone pedissequamente le dinamiche e gli snodi narrativi. Grandissimo sforzo, enorme profusione di soldi, cast di fama internazionale, regista tra i più in vista ad Hollywood. Sembrerebbe non mancare nulla per la buona riuscita di un film che si basa su una storia molto "cinematografica".
Eppure, il seguire pedissequamente le orme della narrazione scritta si rivela un errore fatale. Manca, nel salto tra la carta e la celluloide, quella presunzione di veridicità sulla quale si fondava il successo del libro. Il salto di genere narrativo non reca con sé qualcosa che, rispetto al romanzo, era ormai relegato a qualcosa di esterno al libro, di extra-narrativo, inconciliabile con il passaggio tra due codifiche comunicative così diverse.
Così dal punto di vista del merchandising, il film di Ron Howard non può che sfruttare l'onda lunga della curiosità ormai scatenata dal fenomeno commerciale degli ultimi due anni.
Dal punto di vista cinematografico la pellicola si pone come una magnificente scatola vuota, ricca di effetti e colpi di scena che, in definitiva, tali non sono, cercando di inseguire uno snodo narrativo finalmente innovativo ed efficace attraverso movimenti di macchina e giochetti in computer grafica più o meno sofisticati. Ma il libro ha ormai esaurito, nell'inganno della sua costruzione nell'immaginario collettivo, tutta la possibilità di innovazione testuale. L'impostare tutto il film sulla semplice scia del fenomeno, senza la possibilità di una rielaborazione testuale e di una ri-codificazione cinematografica, ha relegato il film in una situazione di pesante sterilità, togliendogli ogni velleità di far propria una modello narrativo che gli è stato imposto.
Il codice del film, dunque, lo si era svelato ben prima della sua uscita in sala.