Peculiarità dei generi cinematografici è quella di seguire le tendenze sociali per rispondere alle esigenze del grande pubblico. Possiamo citare i film di propaganda bellica nel corso della Seconda Guerra Mondiale o anche l'esplosione dei monster movie per raccontare la paura del nucleare. Per questo i generi sono di natura popolare: perché nascono ed evolvono a seconda dalla richiesta di massa, seguendo un flusso artistico e creativo ben preciso fatto di tropi specifici sia a livello tematico che formale.
Anche i cannibal movie degli anni '80 rispondono certamente a queste regole, sfruttando il background socio-politico di quegli anni come massima ispirazione per estremizzare elementi visivi e contenutistici dei vari progetti sotto l'egida cinematografica del cannibalismo. Omicidi e diffusa violenza erano all'ordine del giorno in Italia tra la metà degli anni '70 e buona parte degli '80, soprattutto a causa del terrorismo delle Brigate Rosse, i cui attacchi cittadini e relative e sanguinose conseguenze venivano mostrate quotidianamente in televisione. Questo spinse registi nostrani come Umberto Lenzi o Joe D'Amato a rimodellare e ibridare insieme diversi tratti di generi differenti per crearne uno totalmente nuovo - il Cannibal per l'appunto -, il cui maestro più amato e riconosciuto è senza dubbio Ruggero Deodato, in particolare il suo Cannibal Holocaust, divenuto un seminale caso studio e adesso nuovamente in sala dal 21 al 23 agosto, in 4K e nella sua versione integrale grazie a Cat People Distribuzione.
Codificare un genere
Un titolo, Cannibal Holocaust, ancora oggi storico e fondamentale tanto per i cannibal movie quanto per il falso documentario miscelato al found footage. Di base è riconosciuto per essere stato il primo film horror a utilizzare la tecnica del "video ritrovato" all'interno di una narrazione di genere, ma più importante e capitale è il modo in cui Deaodato ha radicalizzato con perfetta attenzione gli elementi costitutivi dello stesso, in realtà settandone gli standard basilari e perfezionandolo. Imitando il prototipo snuff-erotico di Lenzi e D'Amato, l'autore confezionò nel 1972 Ultimo mondo cannibale, un prodotto ancora grezzo e fin troppo legato a sensibilità di generi differenti poco amalgamate tra loro, di certo non nella critica mediatica e di costume. Mentre uscivano film come Emanuelle e gli ultimi cannibali o La montagna del dio cannibale, così, Deodato cominciò ad affinare ai limiti della codificazione le componenti tecnico-artistiche primarie del genere in esame, tornando poi al cinema con Cannibal Holocaust nel 1980 e consegnando al mondo il suo massimo capolavoro, inteso come suo film più rilevante. L'opera è divisa in due parti ben distinte: la prima dove il Professor Harold Monroe (Robert Kerman) parte per l'Amazzonia alla ricerca di quattro giovani reporter estremi, inoltratisi pochi mesi prima nella foresta brasiliana per documentare vita e usanze delle tribù cannibali della zona.
La seconda, invece, dedicata alla visione del filmato girato dal gruppo di ragazzi e ritrovato da Monroe, alla ricerca dei motivi che li hanno portati a una terrificante morte, uccisi e mangiati da quelle stesse popolazioni che erano andati a studiare. In tutto ciò assistiamo a un susseguirsi di avventura, scene erotiche, esplorazioni della giungla amazzonica e violenza reale sugli animali - squartati, scuoiati o decapitati ancora vivi -, motivo che è costato a Cannibal Holocaust (ma anche ad altri prodotti simili) diverse denunce, confische e censure nonché innumerevoli critiche negative dalla stampa specializzata dell'epoca, creando un curioso paradosso morale, sociale e tematico con il senso stesso del film di Deodato.
Selvaggi
Ciò che rende infatti il film di Deodato un vero e proprio caso studio cinematografico è il forte e predominante interesse nell'analisi etica, deontologica e umana della dissonanza tra metropoli e giungla, tra civiltà e selvaggi. In realtà è proprio dopo Cannibal Holocaust che il genere nobilitò questo ulteriore elemento aggiunto, sfruttandolo maggiormente ma senza raggiunge mai concretamente i livelli innovativi del lungometraggio di Deodato. Non c'è inoltre parodia o scherno della violenza, che viene mostrata nei suoi tratti più crudi e viscerali, distanziandosi per questo dal mockumentary. Il contrasto è tra l'ipocrisia del capitalismo (della cosiddetta civiltà) e le usanze interne alle spietate e apparentemente barbare tribù amazzoniche. E il filtro è quello dei media, che il regista critica apertamente e con ferocia, additando con coraggio la brutalizzazione e spettacolarizzazione del male e della crudeltà, ma anche la manipolazione della verità mediante i mezzi di comunicazione, siano telegiornali o cinema stesso. Se il genere in questione ha sempre cercato di interrogarsi su chi fossero i veri selvaggi in preda a istinti animaleschi e aggressivi tra i popoli civilizzati e le tribù cannibali, Deodato è andato oltre, individuando nei mass media la più grande creatura antropofaga di tutte, in senso sociale e culturale, in grado di nutrirsi persino della coscienza e della volontà umana, dando conseguentemente in pasto agli spettatori "carne da macello" sotto forma di puro sensazionalismo capace di seviziare con masochismo i loro sensi.
Anzi, questo inconsapevole indottrinamento spinge l'uomo senza coscienza né cultura a stuprare la natura, a prendersene gioco e ucciderla senza rispetto, quasi fosse loro diritto, essendo razza predominante nonché più progredita. Mai nelle metropoli e sempre distanti dalla civiltà urbana, comunque, come a voler liberare pulsioni represse falsificando di fatto la propria umanità. Prima ancora de Il ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller o di Natural Born Killer di Oliver Stone, Deodato rifletteva con competenza, deduzione e ingegno sul black mirror del capitalismo mediatico attraverso uno dei generi di serie B più liberi e sovversivi che mai.