In scena c'è L'avaro di Molière recitato in napoletano. Il burbero Arpagone in salsa partenopea, a decantare altre miserie e altre nobiltà. In platea, invece, un solo spettatore. La vena creativa e le ardite sperimentazioni del teatrante Domenico Greco non sono mai state apprezzate, così l'ennesimo tonfo al botteghino dei suoi spettacoli lo mette sul lastrico. Il proprietario del teatro pretende troppi mesi di affitto mai pagati e la sua storica compagnia, formata da sole tre persone, si scioglie. Forse, però, per Greco il teatro non era solo una ragione di vita, ma anche una fuga dai problemi di ogni giorno. Sì, perché a casa lo attende una cognata ormai vedova assieme ad un nipote affetto da una grave malattia cardiaca. Poi, ecco una speranza: dagli Stati Uniti arriva la notizia di un'operazione che potrebbe salvare la vita del bambino. Unica controindicazione: servono più di 160mila euro. Da buoni napoletani, Domenico e sua cognata Rosetta si recano a chiedere grazia e consigli al cospetto del buon San Gennaro, il quale, per uno strano gioco del destino, dà loro il permesso di rubare la sua sacra e preziosa tiara per il bene del piccolo.
Peccato che la loro richiesta venga origliata da un altro uomo disperato (Ferdinando), pronto a ricattare i due pur di entrare a far parte del "colpo blasfemo". Ha così inizio una serie infinita di piani strampalati, goffaggini e di equivoci, dovuti anche all'intervento di una coppia di ladri romani (veri e propri Diabolik ed Eva Kant de noantri) e del figlio pestifero di Ferdinando. Tra Napoli, Torino e Cannes questa caccia al tesoro farà scoprire a tutti loro "scrigni" inaspettati.
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Sulle tracce del passato
Questo non è un remake, ma un film nato come omaggio appassionato e nostalgico alle commedie italiane degli anni Cinquanta, quelle capaci di raccontare la miseria con sapori agrodolci e di esaltare la semplicità dell'intramontabile arte dell'arrangiarsi. Ispirato in maniera dichiarata ad Operazione San Gennaro di Dino Risi, Caccia al tesoro sulla sua mappa ha soprattutto due coordinate principali, che rispondono ai nomi di Eduardo De Filippo e Totò. Al centro del nuovo film di Carlo Vanzina (scritto assieme al fratello Enrico) batte forte il cuore di Napoli, una Napoli messa alle corde, abitata da uomini e da donne costretti a collaborare per condividere mancanze, disdette e bisogni impellenti. Vanzina cerca con tutte le sue forze di recuperare quello sguardo ingenuo sul mondo, di dare ai suoi personaggi la stessa spontaneità tanto cara a quei grandi maestri, ma nonostante le buone intenzioni, il risultato mette in evidenza tutto il fiatone nato dopo questa difficile rincorsa ai miti del passato.
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La vera caccia al tesoro del film è dunque la spasmodica ricerca del guizzo comico, del duetto ritmato, dalla gag riuscita. Tutte cose che avvengono a sprazzi, a causa di una sceneggiatura che ha il dono della semplicità e dell'immediatezza, ma anche tanti, troppi dialoghi poco riusciti a livello comico: giochi di parole forzati, allusioni sessuali fuori luogo, tempi comici non sempre coordinati. La forza del film è tutta nell'affiatamento tra un Vincenzo Salemme che le prova tutte pur di salvare la situazione e un Carlo Buccirosso solo apparentemente sottotono, ma abile nel delineare un personaggio invidioso, rancoroso e imploso.
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Vedi Napoli, e poi?
Quanti film all'ombra del Vesuvio in questo 2017 particolarmente partenopeo. Abbiamo assistito alle gesta eroiche de I peggiori, ai drammi familiari de La tenerezza, alle ironiche rivisitazioni musicali di Ammore e malavita, alle fiabesche atmosfere di Gatta Cenerentola, senza dimenticare l'imminente Napoli velata di Ferzan Ozpetek (in uscita il 28 dicembre). Che immagine di Napoli emerge da Caccia al Tesoro? Mentre la voce del compianto Pino Daniele canta ancora di mille colori e di carte sporche, della città vengono a galla i soliti stereotipi (la scaramanzia, la malavita, l'odio per Higuain), ma soprattutto lo storico legame con il teatro, come fosse una terra di mezzo dove realtà e fantasia, verità e miracoli riescono a convivere ogni giorno. In tal senso la metafora (per quanto abusata e con un risvolto finale piuttosto retorico) della vita come spettacolo perenne, dell'esistenza come arte sopraffina dell'improvvisazione e del mascheramento è forse la parte più riuscita di un film schiacciato dalle sue aspirazioni troppo grandi, destinato a rimanere all'ombra del Vesuvio e di quei grandi maestri, intoccabili come San Gennaro.
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Movieplayer.it
2.5/5