Una recensione è come il sesso: non devi considerare quello che non c'è, ma quello che hai a disposizione.
Non potevamo che iniziare con queste parole della critica culinaria fittizia Sara Southworth la nostra recensione di Boiling Point, il già pluripremiato film di Philip Barantini con Stephen Graham che arriva dal 10 novembre al cinema con Arthouse, nuovo progetto editoriale di I Wonder Pictures dedicato al cinema d'essai. Un'operazione che può sembrare pretenziosa, come spesso capita per i film realizzati in un unico piano sequenza, ma che invece utilizza la tecnica come mezzo funzionale alla trama per raccontare cosa vuol dire stare in cucina in un ristorante di successo e soprattutto a cosa può portare alla fine della giornata. Tutto questo si può intuire fin dal titolo, "punto di ebollizione", ovvero il momento in cui qualcosa o qualcuno tenuto troppo sotto pressione esplode.
Punto di ebollizione
In realtà più che cinema d'essai, essendo ambientato in una cucina e in un ristorante, Boiling Point - che presto diventerà una serie tv dallo stesso team creativo e produttivo - si avvicina moltissimo al pubblico. L'opera seconda di Philip Barantini mette al centro Stephen Graham (che apprezziamo fin dal ruolo di Al Capone in Boardwalk Empire) nei panni dello chef Andy Jones, che gestisce uno dei ristoranti londinesi più rinomati. Attraverso la macchina da presa, che non si ferma mai, seguiamo lui e il suo staff in quella che sembra essere la peggiore serata possibile, in cui pare accadere di tutto. I dipendenti vengono messi a dura prova dagli eventi, mentre provano ad affrontare delle crisi personali. La magia dell'unico piano sequenza pensato per la pellicola si attua in ogni scontro verbale e fisico, in ogni impiattamento in preda al nervosismo e allo stesso tempo calma assoluta, in ogni sguardo rubato, in ogni camminata spedita, in ogni movimento sincopato che i personaggi si ritrovano ad offrire, inconsapevoli, alla telecamera. Il pubblico viene da subito messo in tensione, che il regista riesce a mantenere fino alla fine, tra forchette, coltelli, pentole, fornelli, postazioni disordinate e clienti poco accondiscendenti.
Boiling Point: BBC ha ufficializzato la serie sequel, confermando Stephen Graham e Philip Barantini
Famiglia disfunzionale
Un plauso va al cast ottimamente scelto per la pellicola e capitanato da Stephen Graham. Perché il cuore di Boiling Point - Il disastro è servito sono i lavoratori del ristorante: appena arrivati, veterani del mestiere, legittimati a indossare il camice ed essere chiamati chef, oppure tutto il contrario. È in queste dinamiche disfunzionali che Philip Barantini si annida, cercando di spiegarci con pochi dialoghi, sguardi e silenzi quanto accaduto "nelle puntate precedenti" come fossimo in una serie tv. Allo stesso tempo molte storie rimangono in sospeso, perché si tratta di uno scorcio nelle vite di questi personaggi e di questo ristorante, ma è giusto così. È come se attraverso l'occhio della macchina da presa spiassimo nelle loro vite per comprendere un po' meglio come funziona l'altro lato dove siamo abituati ad essere i clienti.
Una menzione speciale però vorremmo farla alla Carly di Vinette Robinson, sous-chef portata all'estremo per lo stress di essere la chef principale senza esserlo davvero, a livello economico e gerarchico. Il monologo che ad un certo punto si ritroverà a fare in cucina, rappresenta una sorta di pre-boiling point di quanto accadrà in seguito, come quando l'acqua bolle ma aspetti lo faccia di più per buttare la pasta. Una grande performance attoriale che non può non coinvolgere il pubblico, che si sentirà chiamato in causa per tutte le volte in cui si è lamentato di un piatto o di un servizio, senza forse realizzare il lavoro che vi è dietro quella pietanza. Rapporti disfunzionali come quelli familiari, perché la cucina è a tutti gli effetti una famiglia, che va nutrita, coccolata, protetta e mantenuta, come ci ha già insegnato in tv The Bear (impossibile non fare un'associazione mentale). L'epilogo della storia, che non vi sveliamo, sebbene sia chiara fin dalle prime battute la denuncia di quel sistema malato e logoro, è sorprendente e devastante. Rimarrà dentro di voi molte ore dopo la visione, quando ci ripenserete e forse addirittura rivaluterete le vostre scelte lavorative.
The Bear, la recensione: a lezione di cucina... e di vita
Ambiente tosto
La cucina viene dipinta ancora una volta - soprattutto ad alti livelli - come sede di profondo disagio psicologico, di pressione continua e un ambiente lavorativo in cui alla fine nessuno vorrebbe lavorare. Se non fosse per il lato profondamente artistico e creativo che circonda i bellissimi piatti creati e impiattati e l'esperienza sensoriale che provoca il buon cibo. Il lucente bancone del bar, i tavoli perfettamente apparecchiati, il caposala gay simpatico che ti invita alla nottata che farà come DJ, il barista sexy che prepara i tuoi drink shakerandoli. Tutto questo offre il punto di vista "da dentro", il making of di un film diviene il dietro le quinte di una cucina. Boiling Point è un climax ascendente culinario pronto a esplodere, pronto ad uscire con la schiuma dalla pentola a pressione tenuta chiusa più del dovuto, per vomitare in faccia al pubblico tutta l'insoddisfazione e l'inadeguatezza che proviamo come esseri umani. In quest'ottica e contesto è immancabile la figura del critico, quasi meta-narrativo, che fin dai tempi di Anton Ego in Ratatouille utilizza quello culinario per mostrare quello generale: esterno, estraneo alla vicenda, che invece grazie al cibo dovrebbe fare un viaggio di ricordi attraverso i sapori, gli odori, i colori. Da questo film potremmo imparare e guadagnare qualcosa tutti, come persone prima che come aspiranti chef.
Conclusioni
Alla fine della recensione di Boiling Point, così come del film stesso, siamo devastati ma appagati da un’esperienza cinematografica che ha messo in discussione ciò che potevamo pensare fino a quel momento dell’ambiente culinario e della ristorazione. Niente Ratatouille ma piuttosto The Bear, come ispirazione alla lontana, per un film che mette al centro il dietro le quinte di una cucina. Una famiglia disfunzionale che la macchina da presa segue con un unico piano sequenza per aumentare la tensione fino all’ultima inquadratura. Più che con l’acquolina in bocca, si arriva a fine visione con l’acqua che ribolle ed è pronta a esplodere.
Perché ci piace
- L’idea del piano sequenza non come vezzo creativo ma funzionale all’ambiente lavorativo che racconta.
- La tensione che si acuisce man mano fino a esplodere.
- L’interpretazione di Stephen Graham e Vinette Robinson su tutti.
- Il finale devastante.
Cosa non va
- Proprio la tecnica utilizzata e l’epilogo potrebbero non essere apprezzati da chi vuole un momento per “respirare” durante la visione.