Ci sono vecchi film che non riescono proprio a diventare film vecchi. Succede a tutte quelle pellicole attraversate da una testarda attualità, impermeabili al passare del tempo perché portatrici di messaggi universali. Accade quando la fantascienza, per una volta, non vola verso altri pianeti anche quando parla di colonie extra-mondo, non si impegna a scoprire nuove razze, ma si pianta con i piedi per terra ad esplorare con dedizione le angosce dell'animo umano, anzi di qualcosa di "più umano dell'umano". La carica filosofica di Blade Runner rende il film di Ridley Scott un manifesto di umanità che si interroga (e invita lo spettatore a riflettere) sul senso della morte, sul valore dell'esistenza e il peso della libertà nel mondo moderno.
Immerso in un incubo distopico, dove pochi insospettabili sognano ancora qualcosa di bello, il capolavoro tratto dal romanzo di Philip K. Dick (tra gli autori più saccheggiati da Hollywood) dà vita ad un cinema nostalgico, sovraccarico di visioni metaforiche e lungimiranti. In una Los Angeles sovrappopolata e fetida, quasi abbandonata ad un destino fatto di degrado e alienazione sociale, seguiamo i passi ondivaghi di Rick Deckard, agente della Blade Runner incaricato di "ritirare" dei replicanti ribelli.
In questa caccia estenuante diventa difficile distinguere vittime e carnefici, prede e predatori, perché il confronto morale tra personaggi è pieno di contraddizioni che impediscono allo spettatore di creare etichette e orientarsi con certezza. Destabilizzante e poetico, Blade Runner è forse il film che più di tutti è riuscito a parlare del rapporto simbiotico tra uomo e tecnologia e lo ha fatto proprio attraverso il cinema, la forma di racconto che meno di tutte può prescindere dalla tecnica. Il grande schermo ospita corpi e software emotivi, parla di un domani che sa essere sempre oggi e intrattiene il pensiero dello spettatore insinuando dubbi che restano tuttora irrisolti. In occasione del ritorno del film nelle sale italiane (i prossimi 6 e 7 maggio) andiamo a scoprire le caratteristiche di un'opera grandiosa, che si nutre di immaginazione pur alimentandola, perché se ai suoi replicanti restano solo quattro anni di vita, Blade Runner non conosce i limiti del tempo.
1. Una fantascienza "degenere"
A tre anni da Alien, Ridley Scott tornò a ridefinire il genere fantascientifico. Se l'avventura spaziale di Ellen Ripley non era che uno spietato horror basato sulla fame del cacciatore e la paura della preda, in Blade Runner la fantascienza si arricchiva di nuovi generi, dando vita ad un film ibrido come le creature sintetiche di cui parlava. La versione cinematografica ufficiale, ovvero quella rilasciata nei cinema nel 1982, rispondeva ai canoni di un noir futuristico. La voce fuori campo, il cammino solitario di un poliziotto scontroso all'interno di una città ostile e la figura della femme fatale ricalcano le caratteristiche tipiche di un poliziesco dark. Contaminato anche da sequenze dinamiche da cinema action, il film assumeva tonalità drammatiche nei dialoghi intrisi di desideri e paure. In questa Los Angeles del 2019 la fantascienza è dunque un grande contenitore dove far convivere tanti altri linguaggi del cinema.
2. Io, replicante
Dalla donna robotica di Metropolis al possente Terminator, il cinema ha nel cyborg uno dei suoi feticci preferiti, una figura ambigua, incarnazione prediletta di dubbi e inquietudini poi impresse su pellicola. Apprensioni scaturite dal bisogno di interrogarsi sul senso del progresso e sugli effetti che questo ha sulle persone che lo vivono in prima persona. L'automa è uno specchio robotico di fronte al quale riflettere o fuggire. Ma se molti film hanno ripreso il modello-Frankenstein e descritto un automa ribelle che si rifiuta di essere controllato dal suo creatore, Scott opta per un incontro tra individui e robot. In Blade Runner il confronto con l'intelligenza artificiale evita qualsiasi forma di distacco, preferendo invece una simbiosi in cui è facile trovare punti di contatto tra Deckard e le sue prede. I replicanti hanno consapevolezza di sé e dei propri limiti, soffrono la prospettiva di una fine prestabilita e lottano per sopravvivere. Ognuno di loro possiede una personalità ben definita e la esprime attraverso un preciso modo di comportarsi, vestire, pensare, risultando commoventi nel loro aggrapparsi alla vita attraverso fotografie che fungono da ricordi e cuscino emotivo. In questo gioco di similitudini è molto facile cadere in un dilemma. E se lo stesso Deckard fosse un replicante? Il romanzo di Dick lo nega, Harrison Ford lo ha sempre rifiutato, ma Ridley Scott ha più volte supportato questa affascinante tesi. Una svolta che arricchirebbe di significato tutto il film, con un uomo che forse non ha fatto altro che dare la caccia a se stesso.
3. L'ambientazione: il degrado del progresso
Scorgere dei segni di evoluzione nella Los Angeles plumbea disegnata da Scott è un'impresa proibitiva. Relegata ad un buio perenne, la megalopoli di Blade Runner assume le forme di un mostro urbano che fagocita una società massificata e incolore. Questa ambientazione ispirata funge da elemento narrativo cardine del film, habitat quanto mai significativo del confuso squallore in cui si svolgono gli eventi narrati. La città pullula di grattacieli e baracche, confusa tra il gotico e il barocco, dispersa in un labirinto di palazzi e nebbia di cui Scott riesce quasi a far sentire l'odore. Ed è per questo che il suo protagonista si muove in solitudine e, anche quando si ritrova in luoghi pubblici (club, mercati, strade), appare totalmente slegato dal contesto in cui si aggira. Essere soli è possibile anche in una metropoli.
4. 2019: Odissea nello schermo
Il mondo di Blade Runner è dominato dal culto del visivo. Non a caso tempestato di occhi (la pupilla iniziale, il test, il gufo, il progettista, la morte del Dott. Tyrell), il film propone in maniera insistente il tema del guardare. La città è invasa da maxischermi pubblicitari onnipresenti, le fotografie sono un elemento basilare per i ricordi dei personaggi e Deckard utilizza dispositivi tecnologici interattivi che giocano con l'immagine. E se questa "dittatura video" si sposa con la descrizione di una società oppressa dal consumismo ("Io non sono nel business, io sono il business" afferma l'androide Rachel), è facile pensare che questa sia una grande opera consapevole dell'inevitabile sistema in cui si inserisce. Ovvero quello dello show business (il film è pieno di evidenti product placement) e di un cinema metatestuale che ragiona su stesso, dove si osserva e si fa osservare.
5. Un design simbolico
Le ispirazioni visive di Scott provengono delle fonti più disparate. L'arte pittorica di Hopper incontra il fumetto di Jean Giraud e le visioni cinematografiche di Fritz Lang. Da questi presupposti nasce un design fortemente simbolico dove ogni singolo elemento visivo si carica di altri significati. Agevolato da un casting riuscito, dalla presenza scenica imperiosa di Rutger Hauer al volto senza tempo di Sean Young, il regista ha creato una fabbrica di segni stracolma di metafore. Pensiamo alle due cyborg donna eliminate da Deckard. Zohra, una spogliarellista accompagnata da un serpente tentatore e diabolico, viene uccisa tra le vetrine di un negozio, immersa tra l'indifferenza dei passanti e manichini inermi, non tanto diversi dalla sua figura di donna-oggetto. Sorte in parte simile a quella di Pris che, truccata come un orsetto lavatore, cerca di trovare un po' di innocenza tra i giocattoli, trovandovi solo la morte. Difficile poi dimenticare l'inquietante figura del Dott. Tyrell, uomo cinico, rinchiuso in una fabbrica a forma di piramide (richiamo alla schiavitù) che dovrebbe essere un lungimirante promotore di progresso, invece indossa occhiali spessi e morirà proprio trafitto negli occhi, cieco come la sua industria di replicanti; oppure il giovane giocattolaio dalla pelle raggrinzita che si rifugia nel suo ovattato mondo di pupazzi. E mentre assistiamo ad una vera e propria partita a scacchi dove Deckard, forse, è una pedina nelle mani del losco detective Gaff, la sublime morte di Roy Batty assume tonalità liriche intrise di riferimenti religiosi (il chiodo nella mano, la pioggia incessante, la colomba bianca).
6. La colonna sonora
In una perfetta armonia tra suoni e immagini, Blade Runner è impreziosito da una colonna sonora evocativa, capace di valorizzare e sottolineare l'emotività di ogni singolo fotogramma del film. Vangelis alterna morbide sonorità new age alla potenza oppressiva e insistente della musica elettronica. Il compositore greco tesse il tappeto musicale ideale per immergere lo spettatore dentro un futuro disturbante.
7. Il dubbio sulla natura di Deckard
Come è noto, non esiste un solo Blade Runner. Coerente con il suo tema di fondo, anche il film di Scott ha conosciuto più repliche e versioni, ognuna delle quali possiede una sua precisa visione del racconto e giustificazione di fondo. In realtà la trasposizione ufficiale, ovvero quella che uscì nei cinema di tutto il mondo nel 1982, non è quella davvero immaginata dal regista. Infatti il finale di questa versione, dove assistiamo alla fuga dei due amanti e a delle panoramiche aeree riciclate da immagini scartate da Shining, tende a fornire una visione più rassicurante con una morale che, anche se non propriamente positiva, risulta perlomeno piena di speranza. Nel 1992 Scott ci tiene a rendere pubblica quella che dev'essere universalmente riconosciuta come la sua versione ufficiale del film (la Director's Cut), dieci anni prima rimaneggiata per volere della produzione (spaventata da alcune proiezioni poco riuscite prima del rilascio). Qui viene inserita una sequenza onirica fondamentale per ribaltare il punto di vista sulla storia, ovvero un sogno ad occhi aperti di Deckard nel quale il poliziotto vede correre un unicorno bianco. Un dettaglio che, unito al ritrovamento di un origami proprio a forma di unicorno, fa supporre che anche lo stesso poliziotto sia un replicante con ricordi "preconfezionati", utilizzato da Gaff come arma letale per eliminare tutti i cyborg ribelli. La Director's Cut termina in modo brusco e spiazzante, con le porte di un ascensore che si chiudono, accompagnate dall'amara presa di coscienza del protagonista. Un dubbio ancora vivo che continua a dividere i fan.
8. Il peso di un origami
Ci sono film che non vivono solo di interpreti, storie, dialoghi e grandi immagini, perché si soffermano con particolare attenzione su alcuni dettagli di scena che diventano a loro modo emblematici, inaspettati punti di svolta per intere trame. Parliamo di oggetti comuni che alcuni registi hanno trasformato in veri e propri totem allegorici. La valigetta di Pulp Fiction, la chiave di Mulholland Drive, la trottola di Inception sono tra gli esempi più noti. Prima di tutto questo, Ridley Scott semina per il suo film un paio di scene apparentemente banali in cui un personaggio secondario (Gaff) si diverte nell'irridere Deckard attraverso piccoli origami. Oggetti minuscoli che alla fine del film risulteranno invece basilari, portando lo spettatore a rivalutarne il peso specifico all'interno della storia.
9. Il monologo finale
Dita spezzate, testate, sangue e ululati inquietanti. Batty e Deckard si apprestano al duello decisivo in quello che sembra il naturale preludio ad un violento scontro finale. Ma una volta davvero vicini, faccia a faccia, la ferocia abbandona la scena per trasformarsi in un confronto pieno di pietà. Il celebre monologo dell'androide, diventato una delle scene più cult della storia del cinema, racchiude dentro parole visionarie (in parte improvvisate da Rutger Hauer) tutta la disperazione di un essere pensante che sta per morire. Consapevole della sua fine, l'umanissimo cyborg sa che "è tempo di morire" e guarda con malinconia alla sua breve esistenza, insignificante in quel mondo vorace, che si disperderà "come lacrime nella pioggia". Sono le parole di un angelo meccanico capace di perdonare, un messia portatore di visioni ultraterrene che Deckard osserva inerme, con lo stesso sguardo estasiato dello spettatore.
10. Una difficile eredità
Un capolavoro della cinematografia comporta la nascita di un punto di riferimento per il pubblico così come di uno scoglio difficile da superare per il suo stesso autore. Dopo Blade Runner, Ridley Scott ha conosciuto ancora un grande successo di pubblico senza più riuscire a toccare le vette qualitative di quella sua Los Angeles post-moderna e densa di ispirazione artistica. Il merito di questo film è senza dubbio quello di aver sdoganato il tema dell'intelligenza artificiale con il quale tanti cineasti dopo di lui hanno provato a confrontarsi. Se grandi autori come James Cameron e Steven Spielberg sono riusciti a fornire una loro personale visione grazie ai riusciti Terminator, Terminator 2 - il giorno del giudizio e A.I. intelligenza artificiale, tanti altri film sono rimasti solo sulla superficie dell'intrattenimento (i restanti capitoli della saga di Terminator, Io, Robot, Il mondo dei replicanti, il recente Humandroid). Tra le declinazioni recenti più riuscite c'è sicuramente l'intimo Lei di Spike Jonze, mentre sentiamo di consigliarvi il prossimo Ex Machina (in arrivo il prossimo 30 luglio). Senza dimenticare che nel 2016 avranno inizio le riprese del sequel di Blade Runner, diretto da Denis Villeneuve, dove forse vedremo un combattimento tra navi a largo dei bastioni di Orione e i raggi B balenare. Perché se c'è qualcosa che noi umani non possiamo nemmeno immaginare, il cinema resta una delle nostre poche speranze per riuscirci.