E' un Ben Stiller particolare, quello che si vede ne I sogni segreti di Walter Mitty. Diverso dal solito, indubbiamente, sia a livello attoriale che registico. Per imperfetto che sia il risultato, narrativamente non esente da squilibri, va dato atto all'attore/regista americano di aver costruito un film complesso; una commedia che gioca con il registro grottesco ed iperrealistico delle visioni di un moderno Candido, ma anche con quello più intimo, quasi venato di malinconia, e persino con i toni avventurosi di un sorprendente viaggio tra due continenti. Un film che soprattutto, a dispetto di tutti i suoi squilibri, emoziona: non è questo, mai, un risultato da poco. Così come non è da poco l'aver reinventato un personaggio nato molti decenni fa, da una storia dello scrittore ed umorista James Thurber che era già stata portata sullo schermo due volte: nel noto Sogni proibiti di Norman Z. McLeod, pellicola che vedeva Danny Kaye protagonista, ma anche nell'italianissimo Sogni mostruosamente proibiti, diretto da Neri Parenti e interpretato da Paolo Villaggio.
Stiller, simpatico e loquace come sempre, ha introdotto il suo film e la sua personale visione del personaggio, in un affollato e interessante incontro stampa.
Il viaggio di Walter Mitty è un po' anche quello di Ben Stiller? Dove voleva arrivare con questa quinta regia?
Ben Stiller: Ogni volta che faccio un film, vado ad attingere dalla situazione in cui mi trovo come persona, dalla mia vita personale. Anche in questo film è stato così: ho riportato sullo schermo ciò che vivo nella mia vita, questioni, problemi e cose che mi riguardano. Dirigere un film dà una grandissima opportunità, anche di fare qualcosa che non avevi mai fatto prima: è importante anche spingersi in territori che magari non ti sono noti, è questo il modo per rimanere sempre coinvolto e dare il meglio di te. Da un punto di vista registico, questa è stata l'esperienza che mi ha dato più soddisfazioni.
E' stata la sceneggiatura che ha dettato lo stile del film: era ciò che sentivo, ovvero la storia di un uomo che per lavoro si occupa di immagini, passa la vita a guardare immagini di persone che fanno cose incredibili mentre lui non ha fatto nulla del genere; anche se dentro di sé, questo forte desiderio ce l'ha. L'attenzione che lui dedica all'immagine ha dettato lo stile visivo del film, e anche il tono: è meno cinico di altri miei film, molto più aperto in fatto di sentimenti. Ma non è stata una cosa che ho deciso prima: semplicemente, nel fare il film ho seguito ciò che la storia mi dettava. Solo in seguito, in fase di montaggio e nelle prime proiezioni, mi sono reso conto che si trattava di una nuova esperienza; non lo giudicavo solo dal numero di risate che provocava. Contava la portata e la spinta della storia, c'era una connessione col pubblico a livello di emozioni. E' stata una cosa nuova, che a volte mi ha fatto anche un po' paura: ma ripeto che è fondamentale, per un regista, inoltrarsi in territori in cui non si è troppo a proprio agio, non adagiarsi.
C'è un motivo per cui non ha dato tanto spazio, nel finale, alla foto che è al centro della storia?
In realtà, la foto l'ho fatta vedere per il tempo che era sufficiente, che pensavo servisse al pubblico per farla propria: non volevo indugiarci troppo, ma non l'ho fatto di proposito, semplicemente quel tempo mi sembrava sufficiente.
Ci sono cresciuto, con lo skateboarding: ho cominciato a farlo a New York, quando avevo 10-12 anni. Mi piace moltissimo farlo, anche se non sono così completo come skateboarder: nella realtà non faccio certo le acrobazie che si vedono nel film. E' uno sport che fa parte della mia infanzia, comunque, ne ho ottimi ricordi. Da quest'estate, poi, ho iniziato anche a insegnare a mia figlia ad andare sullo skate, ed è stato bello questo passaggio di testimone da una generazione all'altra.
Il tema del film sembra essere anche quanto sia difficile essere sé stessi, in un'epoca di mondi paralleli in cui domina il virtuale. Voleva esprimere anche questo?
Questo è motivo per cui amo venire in Italia! Trovate nei film sempre i significati più profondi. Uno dei temi è proprio quello di cercare di creare un legame e una connessione, di stabilire un contatto con le altre persone e anche con se stessi. Sognare a occhi aperti è importante, per il protagonista, gli consente di continuare ad andare avanti; ma nello stesso tempo lo blocca, gli impedisce di creare un vero rapporto e un legame con gli atri. In un certo senso, quindi, reprime qualcosa che c'è. Nel mondo odierno, che da analogico è diventato digitale, è più che mai importante creare un legame concreto con gli altri, qualcosa che sia una vera e propria interazione. Non vedo comunque il protagonista come un introverso: piuttosto, è una persona normale che cerca di capire come va il mondo, in una società in cui è più difficile adattarsi a ciò che è reale. Cercare di passare da un'esistenza virtuale, tutta basata su computer e cellulari, a una reale, oggigiorno è una cosa nuova: penso sia un tema importante per le nuove generazioni.
È una cosa su cui rifletto e che ho anche vissuto. Nella mia vita ho vissuto molte "prime volte": tra queste c'è stata quella del mio primo computer, avevo 14-15 anni, allora non c'erano i cellulari e i primi videogiochi erano molto più semplici. Abbiamo vissuto anche la transizione da allora ad oggi: ed è un peccato che adesso arrivino tutte queste informazioni, prese da tante fonti, ma tutte virtuali. Avere in mano le riviste e i libri è bello: io detesto leggere su tablet, per esempio. Quando abbiamo fatto le ricerche per questo film, mi sono reso conto di quanto fosse importante l'idea di una rivista fisica: tenere in mano un numero di Life del 1945 era come tenere in mano un pezzo di storia. I ragazzi, oggi, non hanno questa percezione ed è un peccato: in generale, attingiamo da così tante fonti diverse che la capacità di attenzione si riduce. Siamo distratti da tutte queste fonti. Questo film è stato un po' un incidere nella memoria: celebrare la memoria di ciò che è stato il mondo analogico. Walter non poteva che essere a suo agio, in quel mondo, visto il lavoro che fa. Anche girare su pellicola è sempre più difficile, oggi, ma per il tema del film era fondamentale che lo facessi: come altro avrei potuto girare una storia del genere?
Che consiglio darebbe ai sognatori, ai tanti Walter Mitty che sono sparsi per il mondo?
Non saprei, veramente non sono capace a dare consigli. So solo che le persone come lui, con la loro fervida immaginazione, sono le menti davvero importanti. Quei sogni sono componenti di lui, ed è importante che lui continui a sognare: infatti è proprio la sua fervida immaginazione che lo spinge a fare i primi passi, a salire su quell'elicottero e ad agire, a entrare nel mondo reale. Quello che potrei consigliare, forse, è continuare a sognare ad occhi aperti, anche laddove magari si fa un lavoro noioso, o che non richiede creatività.
All'epoca di quel film mi sentivo molto vicino, anche anagraficamente, ai personaggi. Per questo film, invece, sono più consapevole di ciò che è la mia situazione del momento: so dove sono arrivato. Venti anni fa avevo una visione della vita diversa, non pensavo mai a soffermarmi, a guardarmi indietro e a vedere a che punto ero arrivato: ero uno che guardava avanti. Oggi sono molto più consapevole, e questa differenza si rispecchia nei rispettivi personaggi.
Chi ha concepito quella divertentissima scena di lotta con Adam Scott, in cui vi contendete quel pupazzo di gomma?
L'abbiamo pensata io e Steve Conrad, lo sceneggiatore. Abbiamo riflettuto su come potevamo far esprimere a Walter la rabbia nei confronti del suo capo, una rabbia che non poteva esprimere direttamente: abbiamo pensato a come la si potesse convogliare in una scena, e ci piaceva che lui si trasformasse in questo supereroe che combatte per una questione sciocca, nel bel mezzo di New York City.
Conosce il film degli anni '40 con Danny Kaye? Sa che anche in Italia ne è stato realizzato un remake negli anni '80, con Paolo Villaggio, intitolato Sogni mostruosamente proibiti?
No, non sapevo del film con Villaggio... mi piacerebbe molto vederlo! Chissà, forse se lo avessi visto avrei preso qualche idea anche da lì. Il film di Danny Kaye è una classica commedia musicale, ma io non avevo nessuna intenzione di rifarla: non credo che le commedie musicali di oggi, in genere, vengano meglio di quelle di allora. L'idea, piuttosto, era basata sulla sceneggiatura di Steve Conrad, che era molto più vicina al racconto originale: mi piaceva il tono melanconico, che cela la nobiltà di quest'uomo comune, un uomo qualsiasi, di cui nessuno vede però le enormi potenzialità.