Chiedi cos'erano i telefilm. Termine oggi desueto, e forse relativo solo a certe produzioni passate, che riempivano i lunghi pomeriggi in tv. La verità, almeno considerando il fattore nostalgia, è che quei telefilm, tutt'ora, lasciano a chi li (ri)vede sensazioni diametralmente migliori rispetto ad una serie tv rintracciabile in streaming. Non è un caso che siano ancora viste, seguite, ricordate. Amate. Logico che tra una serie nuova di zecca, magari da consumare nella calura estiva, forse è meglio tornare nella tana dei nostri ricordi, crogiolandoci nel tepore di quei pomeriggi consumati tra le mura casalinghe, aspettando di ritrovarci poi tutti in spiaggia, a Los Angeles, fingendo per un'ora di essere anche noi dei Baywatch.
Chi scrive e, siamo sicuri, anche molti di quelli che leggeranno il nostro amarcord, ha un ricordo preciso legato al telefilm ideato da Michael Berk, Douglas Schwartz e dal vero guardaspiaggia Gregory J. Bonann. Un ricordo che parte d'estate, quando la scuola era appena finita, e il tempo si allargava a dismisura. Non c'era internet, non c'erano i social, non c'erano bolle in cui chiudersi. L'unica bolla era la televisione, costantemente accesa su Italia 1. Il brick di succo di frutta, una merendina carica di zuccheri (se Mitch Buchannon ci avesse visto, avrebbe avuto da ridire), la luce calda che entrava dalla finestra e un vecchio Mivar acceso: un rullo di tamburi, un giro di pianola e quell'intro rock di Jim Jamison che canticchiavamo senza sapere le parole, scoprendo anni dopo il vero significato. Ogni puntata di Baywatch era l'evasione da un mondo ristretto, aperta sull'orizzonte sconfinato di un Oceano irraggiungibile.
Pamela Anderson e i nostri supereroi in costume da bagno
Inutile tornare a scrivere cosa fosse, e cosa sia Baywatch (che trovate on-demand su Sky, ma anche su Pluto TV), se non undici stagioni (di cui l'ultima mai arrivata in Italia) incentrate su un gruppo di bagnini di Los Angeles. Amori, amicizie, entrate ed uscite di scena, guest star (citiamo Bryan Cranston, Jason Momoa, Jenny McCarthy, addirittura i Beach Boys), personaggi mitici e personaggi improbabili, suddivisi in 242 episodi (senza considerare gli spin-off) che, ben presto, entrarono nell'immaginario pop degli spettatori. Un immaginario tipico degli Anni Novanta, fatto di cartoline, ammiccamenti, poster da appendere in cameretta. Regina indiscussa di quei poster, Pamela Anderson, che entrò in Baywatch dalla terza stagione, nonostante le iniziali rimostranze del boss David Hasselhoff, che temeva la formosità distraente della playmate.
L'entrata nello show della Anderson, in verità, aumentò l'audience (tanto che molti ritengono, a ragione, che le stagioni dalla tre alle sette siano le migliori), creando il mito, tutto americano (e quindi fuorviante), dei guardaspiaggia come figure abbronzatissime, toniche, bellissime e perfette. Quasi delle divinità, per certi versi. Eppure, a noi ragazzini millennials, dei pettorali scolpiti di David Charvet aka Matt Brody (il nostro preferito, assieme al baffuto Michael Newman), o delle curve di Pamela alias C. J. Parker (abbiamo sempre tifato per la Stephanie di Alexandra Paul), non ce ne fregava più di tanto. Vedevamo (e ancora vediamo)Baywatch per il puro gusto di immedesimarci nella figura accessibile di un bagnino. Qualcuno che non fosse un supereroe in costume (e la serie animata di Batman era l'altro appuntamento irrinunciabile del pomeriggio) bensì in costume da bagno, ma che fosse invece una figura normale, alle prese con un lavoro da svolgere con attenzione e responsabilità.
Sognando la California
Se telefilm vogliamo chiamarlo, Baywatch era la confort zone in cui tornare, capace di farci perdere nelle assolate storie. Storie sempre diverse, che si alternavano di episodio in episodio, tagliando a metà più o meno tutti i generi. Un thriller, un'avventura, un romance, un mistery, una comedy. Non sapevi mai cosa avrebbero dovuto affrontare Mitch e gli altri lifeguards californiani: piccoli e grandi drammi quotidiani, situazioni a volte pasticciate e sbadatamente goffe, ma che funzionavano nel contesto leggerissimo in cui riuscivamo a trovare una nostra dimensione di spettatori.
Un telefilm specchio degli Anni Novanta: decade di frontiera pronta ad aprirsi al digitale, ma ancora a suo agio nell'analogico a portata di tutti, compresi noi spettatori della prima ora, ammaliati dall'immaginario fuorviante ma affascinante che arrivava dagli Stati Uniti (quando la cultura pop era ancora roba loro). Era tutto diverso, chiaro: non c'era l'ossessione allo storytelling, e non c'era nemmeno la tendenza a strutturare una serie televisiva come se fosse cinema. Ma poco importa. Baywatch era la semplicità fatta intrattenimento, a porta di telecomando, alla portata di tutti nella galvanizzante immedesimazione che andavamo a costruire, pomeriggio dopo pomeriggio. Mettendo da parte l'ispirazione per la domenica mattina, quando il mare di Ostia sembrava davvero quello di Los Angeles. Forever and always, I'm always here.