In un editoriale pubblicato mercoledì scorso su The Guardian, e incentrato sulla progressiva perdita di indipendenza del cinema americano nell'indifferenza più o meno generale, un passaggio riporta quanto segue: "Il pensiero sembra essere: guardate, i cattivi hanno vinto, perciò conviene assecondarli; siccome tutti quanti siamo comunque ipersessualizzati, tanto vale farlo in modo più egualitario; dato che oggi comandano le grandi corporazioni, dovremmo assumere persone con un pizzico di nous artistico perché siano il volto dei loro prodotti". La persona a cui si fa riferimento è ovviamente Greta Gerwig, trentanovenne regista e sceneggiatrice californiana artefice dell'attesissimo Barbie, e infatti l'articolo è intitolato non a caso Has Barbie killed the indie director? Why credible film-makers are selling out.
Si tratta di una voce senz'altro minoritaria, nel flusso dell'entusiasmo collettivo per l'opera della Gerwig, ma che sottolinea una questione centrale sulla natura stessa di un film di questo tipo: una "cineasta con credibilità" può convivere con una grande corporazione senza esserne fagocitata? L'articolo di The Guardian non ne faceva un discorso critico, quanto uno spunto per riflettere sulla dicotomia fra libertà artistica e colossi finanziari quali la Disney e, appunto, la Mattel, la società che nel 1959 introdusse sul mercato una bambola adulta ideata da una delle co-fondatrici dell'azienda, Ruth Handler. Una bambola destinata, ci suggerisce il film, a cambiare per sempre il corso dell'umanità... o quantomeno, le esistenze di milioni di bambine che avrebbero reagito alla vista di quella bambola come gli ominidi di 2001: Odissea nello spazio al cospetto del monolite nero: un prologo a cui Greta Gerwig rende omaggio nel suo strepitoso incipit, primo di una lunga serie di momenti da applauso.
Gerwig e Baumbach, dal cinema indipendente alla Mattel
È il luglio di quattro anni fa quando la Warner Bros, che aveva da poco siglato con la Mattel un accordo per un film su Barbie (progetto coltivato già da un decennio), annuncia i due nomi ingaggiati per scrivere la sceneggiatura: Noah Baumbach e Greta Gerwig, alla quale nel 2021 sarebbe stato affidato pure il timone di regia. Lui, da lì a qualche mese, avrebbe entusiasmato le platee con il suo film più acclamato, Storia di un matrimonio; lei, reduce dal successo di Lady Bird, avrebbe replicato con una raffinata e innovativa trasposizione di Piccole donne. Insomma, che lavorassero da soli o in coppia (come non ricordare lo splendido dittico formato da Frances Ha e Mistress America?), Baumbach e Gerwig avevano dimostrato una straordinaria attitudine per i racconti di formazione e di scoperta di se stessi, nonché la capacità di amalgamare introspezione, sentimento e ironia; tutto questo nell'ambito del cinema indipendente, pur avendo raggiunto una visibilità via via più ampia.
E allora, cosa c'entra Barbie? Com'era possibile coniugare l'estro creativo, e ancor di più la volontà di realizzare qualcosa di intimo e personale, con le ambizioni di un brand intenzionato a rinvigorire il suo prodotto più famoso, incamerando al contempo qualche centinaio di milioni di dollari? Come passare da film di ispirazione autobiografica (Lady Bird e Storia di un matrimonio) a quello che si presentava come un "lavoro su commissione" con un budget faraonico da centocinquanta milioni? Ma se ciò non bastasse, Barbie poneva una sfida ulteriore, e ben più spinosa: come rivisitare l'iconografia di un giocattolo il cui nome viene accostato spesso, per antonomasia, a uno stereotipo femminile considerato a dir poco 'problematico'? Uno stereotipo da cui di recente la Mattel ha provato ad affrancarsi, almeno in parte, ampliando la varietà delle sue bambole, ma senza sottrarsi del tutto alle perplessità e alle critiche per aver proposto alle bambine di tutto il mondo degli standard che rischiavano di alimentarne il senso di inadeguatezza.
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Fra vita in rosa e pensieri di morte
Ecco, il primo merito da riconoscere a Greta Gerwig deriva dalla scelta di affrontare da subito, e senza mezzi termini, l'elefante nella stanza: e di farlo con una protagonista, la Barbie in carne e ossa di Margot Robbie, definita letteralmente Barbie Stereotipo. Una Barbie il cui microcosmo dorato, o piuttosto di un brillante color fucsia, si incrina nell'istante in cui, nel bel mezzo di un party e senza il minimo preavviso, domanda a tutti gli altri: "Avete mai pensato di morire?". A livello narrativo, è il motore che innesca la crisi di Barbie Stereotipo, e dunque il suo viaggio - fisico e interiore - per ripristinare l'agognata normalità; ma è anche la scintilla (non l'unica) di un film che in più di un'occasione sovverte le aspettative, mescolando i toni pastello di Barbieland ai "pensieri di morte" del personaggio principale. Non una generica crisi, si badi bene, che sarebbe stata a prescindere un tòpos ineludibile nello sviluppo del racconto, ma "pensieri di morte" ribaditi più e più volte.
È solo un esempio, ma emblematico nell'ottica del target della pellicola: un target estremamente vasto e indiscriminato (data pure la necessità di incassi a nove cifre), che parte dai bambini in età prescolare, ovvero la fascia anagrafica prevalente tra i fruitori del giocattolo, per estendersi poi a spettatori di ogni età. Ebbene, in quale "film per bambini" (ci si perdoni la sbrigativa etichetta) il maggiore ostacolo della protagonista è un'esplicita ossessione per la morte? Intendiamoci, la trascinante commedia della Gerwig non farà fatica a galvanizzare bambini, ragazzi e adolescenti, oltre al pubblico adulto. Ma quei "pensieri di morte" sono l'infrazione alla regola, la nota trasgressiva e per certi versi addirittura straniante, in grado di rivelarci che Barbie non è solo un (ottimo) film per bambini, né tantomeno un product placement di quasi due ore di durata, bensì un'opera che gioca consapevolmente con il ruolo delle Barbie nell'immaginario collettivo, ma anche con la propria essenza di film legato a doppio filo a un brand commerciale.
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Ebbene, su questo secondo aspetto Gerwig e Baumbach calcano più volte il pedale, al punto da dipingere la Mattel come un conglomerato in cui il potere risiede interamente in mani maschili e il cui CEO, impersonato dal buffonesco Will Ferrell, tenta molto goffamente di dissimulare il sessismo dell'azienda: un'azienda che per circa metà del film assume i contorni dell'antagonista di turno, determinata a ringabbiare la Barbie con dilemmi esistenziali nella confezione da cui proviene. Non è l'unico caso in cui l'autoironia del copione rasenta i confini della satira: magari senza arrivare a mordere la proverbiale "mano che dà da mangiare", ma andandoci ben più vicino di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi. E scegliendo, talvolta, di prendere come bersaglio perfino il progetto in sé: come quando la voce narrante (in originale quella di Helen Mirren), in una sferzante "nota ai filmmaker", evidenzia l'ipocrisia di voler demitizzare un certo modello di bellezza pur avendo ingaggiato un'attrice quale Margot Robbie.
L'impatto di una battuta del genere non è legato soltanto all'aspetto metatestuale, ma a quell'effetto di straniamento di cui si diceva in precedenza, alla percezione di un umorismo che a tratti osa spingersi oltre i limiti consueti di un blockbuster hollywoodiano; come quando la teenager Sasha dà a Barbie della fascista, e a lei non resta che ribattere in lacrime "Ma io non controllo le ferrovie!". Perché nel voler ribaltare, o quantomeno rimettere in discussione, i canoni femminili delineati dalle Barbie e i rapporti di genere nella società contemporanea, Greta Gerwig fa in modo di mettere in discussione il pulpito stesso da cui dà voce a tali istanze, ammettendo l'esistenza di contraddizioni analoghe a quelle percepite dalla sua protagonista; contraddizioni che, come ci viene ricordato nell'epilogo, caratterizzano il nostro essere umani. Allora, tornando al punto di partenza, forse è lecito affermare che Barbie non ha 'ucciso' la regista indie; perlomeno fin quando la regista in questione avrà l'intelligenza di non sacrificare la propria libertà creativa sull'altare della Mattel.