Siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i film che abbiamo visto, amato, recuperato e rivalutato. Ce lo ricordano i registi stessi, e ce lo ricordano film come Babylon, Licorice Pizza, o Empire of Light. Il cinema nel tempo è andato ben oltre la semplice finestra sulla realtà. Si è fatto sguardo indagatore, voce di denuncia, grillo parlante e mano rivelatrice di segreti, paure, fragilità tanto personali, quanto universali.
Uno scambio continuo aleggia silente tra gli inframezzi della sala: lo spettatore dona al dio della settima arte la propria storia personale, e in cambio ottiene nuove forme di emozioni, e nuove traduzioni di momenti storici, o intimi, entro i quali ritrovarsi, entro i quali rivivere. E così, ogni film (e ultimamente, anche serie tv) finisce per proporci un universo alternativo, dicendoci qualcosa sul mondo reale. Sullo schermo aleggiano, pertanto, fantasmi di un passato sognato, allontanato, e schegge di un futuro possibile e/o evitabile.
Il potere della sala
Quello che avviene nel mercato delle anime in sala è un baratto di cui i registi si fanno fautori, tra compravendite di sogni e svendite di ricordi personali. Ognuno di loro affida al cinema ombre di se stesso in un discorso metafilmico pronto a navigare tra le acque in tempesta di sogni e ricordi. Non è raro, pertanto, se sempre più nell'universo del post-contemporaneo dove tutto sembra essere stato già detto, e fatto, molti autori decidano di omaggiare il mondo dei sogni (o incubi) in celluloide, mettendo tra parentesi le proprie poetiche, per evidenziare la potenza immaginifica del cinema. È un momento di riflessione e ringraziamento colto nello spazio di quella stessa cornice cinematografica entro cui lo spettatore è chiamato a immergersi. Eppure, proprio perché lontani da quell'ideologia di cinema a cui avevano abituato il proprio fedele pubblico, che i risultati di queste lettere d'amore, non sono stati spesso capiti, compresi, finendo per essere rigettati come figli indesiderati, o come opere ambiziose, ruffiane, e quindi da criticare.
Babylon ed Empire of Light: cinema a confronto
In principio fu Martin Scorsese con Hugo Cabret, poi Quentin Tarantino con C'era una volta a... Hollywood (da tanti amato, ma dai proseliti più affezionati allo stile tarantiniano fortemente bistrattato), e infine Babylon di Damien Chazelle ed Empire of Light di Sam Mendes. Quello che si assiste negli ultimi tempi è un richiamo quasi sciamanico al mondo di un cinema del passato, che non sempre combacia e viene compreso dagli spettatori del presente. Nel momento in cui il cinema arranca, e le sale si svuotano, i registi tentano allora di ricordarci la bellezza della Settima Arte inserendola come protagonista stessa dei loro film. Il cinema non è più veicolo, o canale di intrattenimento, ma agente diretto e cosciente della propria potenza all'interno di un costrutto visivo che lo celebra, ma che risulta però incompreso, sballottolato tra una critica acida, e un pubblico poco ricettivo. Questo perché la tecnologia è andata avanti, lo schermo si è rimpicciolito, e il pubblico ha imparato ad accontentarsi della visione domestica, piuttosto che lasciarsi cullare da un sogno a occhi aperti all'interno di una sala.
Babylon, o l'arte del riscatto
Sarà quella paura di venire in contatto con un carattere tronfio di un'autocelebrazione che non è mai un pregio, ma sempre un difetto, fatto sta che sono rari i casi in cui un film che parla di cinema con fare nostalgico, metafilmico, poetico, elegante, superi i vagli dell'incasso in positivo. Ne è un caso emblematico Babylon di Damien Chazelle, fratello incompreso e deriso di quel La La Land ancora oggi adorato, ed elevato da molti a capolavoro. Quante volte parlando di C'era una volta a Hollywood di Quentin Tarantino è stata scomodata la metafora della "lettera d'amore al cinema scritta con l'inchiostro della luce di proiezione"? Bene, Babylon è molto più di una semplice lettera al mondo del cinema: è un epistolario onesto, che ricalca con enfasi i contorni di un'epoca dedita all'eccesso e all'autodistruzione come quella a cavallo tra il cinema muto e sonoro. E per raccontare l'eccesso bisogna essere smoderati, calcando con enfasi ogni passaggio narrativo, fino a spingere i propri attori sull'orlo dell'overcting, e schiacciare sull'acceleratore al ritmo di una colonna sonora coinvolgente, martellante (e ingiustamente snobbata dall'Academy).
Si ricorderanno le urla, le idiosincrasie, la follia, e le iperbole, ma a rendere unica e matura un'opera da rivalutare come Babylon è il peso di parole lasciate scorrere tra le righe, ed entro le quali ritrovare la bellezza di un film che trasuda di amore per un cinema verso il quale è attratto, e dal quale è rigettato. Se c'è una nota stonata in questa dedica scanzonata è l'ultima mezz'ora, durante la quale quella giostra lanciata a tutta velocità non riesce a frenare in tempo, lanciando lo spettatore verso quel contenuto ingordo, eccessivo, ed esorbitante, poco prima ben distribuito nel corso dei suoi precedenti 159 minuti. Troppi finali, troppe battute incorporee e senza sostanza; è un troppo che stroppa. Eppure, in questo saggio su un cinema come quello dei Roaring Twenties dove quell'ossessione per se stessi, sul tempo che passa, e su quell'egocentrismo già captato da Billy Wilder in Viale del tramonto, tutto si veste di arte preziosa e accecante. Un saggio debordante che grazie alla sua uscita su Netflix ritrova adesso il suo agognato e meritato riscatto.
Babylon di Damien Chazelle: ode ad un film incompreso dalla critica (americana) permalosa
Empire of Light, o l'attesa di tornare alla luce
Da un film rivalutato, a un altro ancora lasciato nel buio dell'incomprensione. Quell'impero di luce a cui allude l'Empire of Light di Sam Mendes brancola ancora nell'oscurità. Criticato, bistrattato, reputato forse troppo melenso e sempliciotto, Empire of light è un corpo fragile sostenuto da un cuore che batte forte. Scadrà un po' nella retorica, certo, ma il tema delle menti fragili, e dei sogni infranti, che tanto abitano il cinema di Mendes, torna con forza, affidando alla luce di proiezione le proprie (dis)illusioni e le proprie ambizioni. Poteva essere di più? Certo. Ma Empire of Light è un film che, anche grazie a una Olivia Colman fanciullesca e delicata, si lascia ammirare, scrutare, andare oltre la superficie per comprendere la sua portata culturale ed emotiva. Tra le mani di Mendes il cinema si trasforma in unica via di fuga per un microuniverso colpito dalla recessione e minato da un razzismo endemico.
Quello di Bristol nel 1981 è un campo di battaglia non dissimile da quello di 1917: le bombe ora sono colpi di bullismo e attacchi razzisti; gli spari sono pensieri intrusivi di una mente fragile; come è stato per Armageddon Time - Il Tempo dell'Apocalisse per James Gray, e Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson, la base autobiografica si mescola alla luce di proiezione, per porsi così alla ricerca di ispirazione e salvezza. La sala cinematografica viene insignita di un potere salvifico, di isolamento dalla realtà e di una scappatoia dal quotidiano. Una realtà fatta di fasci di luce, di immagini che si riflettono sui volti degli spettatori nel buio della sala così lontana da quella dei film visti nell'intimità domestica attraverso una piattaforma. E forse è questo il motivo per cui tendiamo a restare a debita distanza da un cinema che parla di cinema: perché abbiamo disimparato a lasciarci cullare da quell'impero di luce che prima predominava il nostro mondo; un mondo sostituito da un telecomando e un'opera da mettere in pausa e manovrare a proprio piacimento.