Wes Anderson è prima di tutto un esteta. A ben guardare ci sono pochi cineasti in attività così ossessionati dalla ricerca della propria forma, del proprio marchio, della propria griff. Un altro nome associabile a questa categoria potrebbe essere quello di Nicolas Winding Refn (o NWR, come gli piace firmare i suoi lavori da qualche tempo a questa parte). Non è un caso che entrambi abbiano lavorato con il mondo della moda e con Prada nello specifico.
Il cineasta statunitense lo ha fatto anche in occasione del suo ultimo film (penultimo anzi, anche se il successivo non è propriamente un lungometraggio), Asteroid City, le cui scenografie hanno ispirato una mostra curata dal regista in persona e ospitata all'interno proprio dello spazio della galleria Nord di Fondazione Prada a Milano. A differenza del suo "collega" però, Anderson è anche un collezionista. Un artista fruitore, che nella sua idea di cinema comprende l'archivio, la mostra, lo scaffale del nerd che raccoglie esemplari dalla pittura, dalla fotografia, oltre che dalla letteratura, quella che va dalle riviste alle fiabe (di Roald Dahl, possibilmente). Il rischio per un artista ossessionato dalla forma, per di più con così tanti riferimenti, è quello di venirne fagocitato. Il rischio è quello di vedere la sua libreria cadergli addosso.
L'accusa più volte mossa all'indirizzo di Wes Anderson è di essere divenuto ripetitivo (o forse di esserlo sempre stato), di essersi ormai rassegnato a copiare se stesso e di aver perso di vista il contenuto, la "ciccia", proponendo in continuazione le medesime soluzioni senza provare più a raccontare qualcosa di nuovo. Letto secondo quest'ottica, il suo ultimo film presentato in concorso al Festival di Cannes del 2023 è una risposta ferma, sincera e molto meno cervellotica rispetto al passato (qui la nostra recensione). Una risposta data con la solita eleganza e il solito rigore "andersoniano", oltre ad una sana dose di amara autoconsapevolezza, per affermare la volontà di non nascondersi dietro la forma, pur ribadendone la dignità artistica.
Il calore della "Natura morta"
Asteroid City è una città che sorge intorno ad un cratere. Un cratere enorme causato da un piccolissimo meteorite. Una città vicino alla ferrovia, nel mezzo di un deserto scosso solo da reiterati test atomici e che ha nel vuoto l'unico motivo d'esistenza. Una città senza storia i cui luoghi costano talmente poco che possono essere acquistati ad un distributore automatico. Una città senza spirito, che accoglie solo personaggi senza spirito, caratterizzati da delle assenze personali e quindi diretti verso una città nella quale si rivedono. Una città che forse neanche è una città. Come falene attratte dalla fiamma.
Dei profili che ben si sposano con le gallerie dei personaggi andersoniani, che qui vengono mostrati in tutta la loro umana bellezza e in tutta il loro decadente decoro. Dei narcisi persi in loro stessi. C'è un fotografo che non ha il coraggio di accettare la morte della moglie, dei bambini che si scoprono improvvisamente orfani da parte di mamma, un padre che non è in grado di fare il nonno, un'attrice di successo senza più nessuna spinta artistica e un team composto da scienziati che, pur avendo a disposizione i macchinari più avanzati, non hanno la minima idea di cosa stiano studiando. L'unico progresso è quello immaginabile dai giovanissimi. Tutti loro sono i riflessi sinceri della sofferenza artistica di un cineasta che decide di comunicarla ponendoli come proiezione del proprio essere, portati sul palco da un autore teatrale suo alter ego che, sebbene debba di nuovo imparare a lasciarsi andare al sonno creativo, è ancora perfettamente in grado di amare i suoi personaggi.
Anderson vuole dire allo spettatore che c'è una bellezza anche nella loro "Natura morta", una bellezza che può trovare magari solo un esteta, un collezionista di volti, immagini, luoghi, di meteoriti, storie, discorsi e invenzioni. Probabilmente proprio perché solo lui può farlo, allora gli spetta anche il compito di mostrarla a chiunque voglia ascoltarlo. Il prezzo è però quello di mettersi a nudo, di far entrare il mondo all'interno del proprio vuoto.
Evadere da se stessi
Grazie al gioco di cornici ideato per Asteroid City, Wes Anderson intende costruire un viaggio all'interno di se stesso per guidare lo spettatore alla scoperta della sua assenza, del suo cratere, che è prima artistico e poi esistenziale. Il cinema che diventa televisione, che diventa teatro e che poi torna ad essere cinema, inteso come quello spazio dimensionale in grado di inglobare il bianco e il nero e il mondo a colori, in cui il cineasta statunitense trova le modalità di attraversare le quinte e andare anche oltre i personaggi, raccontandoci le persone. Le ultime, a differenza dei primi, possono avere una propria indipendenza e possono dunque ribellarsi al proprio ruolo e, di conseguenza, a colui che lo ha scritto e che ha scritto quindi anche lo spettacolo.
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Ecco, alla fine di questo tunnel Anderson trova l'attore, l'interprete. Lui (o lei) costituisce il cortocircuito che può rianimare il processo creativo rimasto sopito, che può colmare il vuoto, che può riempire quell'assenza così tremenda e così bella. Egli ha la capacità di abbandonare la scena, di scendere dal palco e financo uscire dal teatro per affacciarsi e guardare il mondo fuori. Lì si può incontrare l'altro perché ci si trova in una dimensione al di là del controllo artistico e, di conseguenza, si può sfidare anche il creatore, il regista, lo sceneggiatore. Lì l'attore può mettere mano alla pièce e ridare vita alla sua natura.
"La morte del narcisismo" recita, non a caso, un'insegna posta sullo sfondo di una delle scene madri di Asteroid City, così forse si può sintetizzare la conclusione del viaggio che porta in scena Wes Anderson. Il risveglio invocato di fatto porta ad un rinnovato status quo. C'è ancora la città che non è una città, ritratta con la precisione millimetrica, i carelli laterali e tutto l'arsenale manierista del regista (la sua forma), ma stavolta i personaggi la abbandonano. La pellicola si conclude con un esodo da un luogo dell'arte che gode della bellezza estetica, vuota e irresistibile. Forse il cineasta ha deciso di abbandonare i soliti lidi in cui ha trovato ispirazione. Forse ha deciso di lasciare se stesso, magari per affidarsi alla guida dei suoi personaggi o, semplicemente, incontrare l'altro in un posto al di là del suo controllo ossessivo. All'interno di quel vuoto, infine, rimane solo un esserino in CGI. E di umano non ha niente.