C'è chi ha finora apprezzato l'Hercule Poirot di Kenneth Branagh, chi è fedele al televisivo David Suchet e chi ancora non riesce a dimenticare quello di Peter Ustinov. Lo stesso regista e attore ha collezionato soprattutto negli ultimi anni uno stuolo di appassionati ma parallelamente una stregua di haters che non apprezzano per niente il suo lavoro perché secondo loro pigro e privo di invettiva e guizzi registici. Chissà se questi ultimi si ricrederanno leggendo la nostra recensione di Assassinio a Venezia, ultimo capitolo di questa "serie tv al cinema" com'è diventato oramai il franchise 20th Century Studios, dal 14 settembre in sala. Questo perché rispetto ai due precedenti romanzi scelti - Assassinio sull'Orient Express e Assassinio sul Nilo - qui il lavoro di adattamento e trasformazione da un medium all'altro è molto più corposo e sostanzioso: scopriamo insieme perché e cosa voleva comunicarci Branagh con questa sua ultima fatica.
Un giallo che è un horror
Il primo cambiamento sostanziale che Kenneth Branagh e lo sceneggiatore Michael Green fanno dal romanzo originario di Agatha Christie Poirot e la strage degli innocenti è il genere a cui appartiene l'opera filmica. Intendiamoci, siamo sempre dalle parti del giallo (c'è un vero e proprio omaggio a cui arriviamo tra un attimo) ma questa volta il regista britannico sceglie di puntare sul thriller dalle tinte horror, ambientando la storia non più nella campagna inglese bensì nella nostra Venezia, per la precisione quella del secondo dopoguerra, con le conseguenze soprattutto psicologiche del conflitto mondiale ancora fresche per le persone. Quella che vediamo nel film è una Venezia quasi totalmente in preda alla tempesta - una scelta molto shakespeariana, e da Branagh non potevamo aspettarci nulla di meno - e fumosa, costantemente avvolta nella nebbia come se i suoi palazzi, antichi, imponenti e pieni di misteri si ergessero sul nulla più che su una laguna.
Data l'atmosfera quasi fantasy non poteva quindi che essere soprannaturale il messaggio che Branagh sceglie per il proprio lungometraggio, ovvero la fede nella vita dopo la morte, dopo aver parlato di cosa può arrivare a fare unita una comunità come quella a bordo dell'Orient Express oppure cosa si è disposti a fare per amore, con conseguenze spesso tragiche, sulle sponde del Nilo. Questa volta è credere la parola chiave che tormenta tutti i personaggi, in primis il detective belga che crede nella scienza e nella deduzione per antonomasia, e che la vecchia amica Ariadne Oliver (una spumeggiante Tina Fey, che si dimostra una perfetta spalla comica per il protagonista) va a "disturbare" nell'auto-esilio in cui si è rintanato per farlo partecipare ad una serata molto speciale organizzata dalla soprano Rowena Drake (Kelly Reilly, che a proposito di gialli potreste ricordare come Signora Watson nei due Sherlock Holmes di Guy Ritchie).
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Un horror che è un giallo da camera
La donna ha accettato di ospitare una seduta spiritica con la celebre Joyce Reynolds (una magnetica Michelle Yeoh), una medium di fama mondiale che ha ricevuto una comunicazione dall'aldilà dalla figlia della donna, Alicia, morta tragicamente un anno prima proprio in quell'antico palazzo. Ancora si sente la sua voce in giro per casa, così come quella dei bambini che furono imprigionati e lasciati a morire tanti anni prima, secondo la leggenda rimasti come fantasmi ad infestare la dimora. O almeno così si dice. Inquadrature tipiche degli horror, jump scare, lampadari che cadono a terra e si frantumano, la pioggia battente, le onde che si infrangono sulle gondole, porte che sbattono, la macchina da presa che tiene il ritmo e velocemente passa da un personaggio all'altro, da un dettaglio ad un primo piano. Tutti elementi che danno un ritmo ben diverso alla pellicola rispetto ai due capitoli precedenti, denotando un chiaro intento registico dietro le quinte. Durante la seduta Joyce afferma di sapere che è stato commesso un omicidio, anche se nessuno sembra darle importanza poiché nessuno, eccetto che per la padrona di casa, crede potesse essere davvero lo spirito della ragazza. Proprio come nel romanzo era una ragazzina di nome Joyce Reynolds, a cui nessuno credeva, ad affermare di aver assistito ad un omicidio, per poi finire annegata nel barile del gioco delle mele.
Eppure la domestica, Olga Seminoff (Camille Cottin), credente convinta pensa si tratti della "maledizione dei bambini" che si vendicano di infermiere e medici che li lasciarono rinchiusi a morire, mentre il piccolo Leopold (Jude Hill, ovvero l'alter ego bambino di Branagh nel suo Belfast) è convinto di avere come amici molti dei piccoli defunti. Molto più scettici sono la guardia del corpo di Poirot, l'ex poliziotto Vitale Portfoglio (il nostro Riccardo Scamarcio), il dott. Ferrier (Jamie Dornan), che sta affrontando il PTSD dalla guerra, e l'irascibile chef Maxime che era fidanzato con Alicia (Kyle Allen). Tutti sono sospettati, come nella tradizione letteraria di Agatha Christie e soprattutto nel codice investigativo del detective belga, a cui Branagh riesce a donare ancora una volta quello sguardo ricolmo di velata tristezza.
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Una serata per i morti (e per i vivi)
La serata prevedeva anche la partecipazione degli orfanelli, compreso il gioco delle mele da prendere con la bocca mentre sono in una tinozza d'acqua: tinozza in cui finisce la faccia di Poirot, scambiato per Joyce, avendo una sorta di esperienza di pre-morte. Da quel momento una voce e un volto di bambina continuano a tormentarlo e, quando la vera Joyce viene brutalmente uccisa, il detective belga vede il proprio fuoco investigativo improvvisamente risvegliato e decide di bloccare tutti in quella casa piena di segreti per svelare almeno quelli relativi all'omicidio appena commesso. A questo punto l'horror diviene presto un giallo da camera, con alcune sequenze estremamente teatrali (proprio come nel curriculum del regista inglese). Tutto il contrario dell'originale cartaceo, in cui nella casa del delitto poteva essere passato chiunque e i sospettati si moltiplicavano di pagina in pagina.
La serata coincide con la notte di Halloween e quindi con la Vigilia di Ognissanti, durante i quali per tradizione il confine tra l'aldilà e il nostro mondo si assottiglia parecchio ed è proprio su questa sensazione borderline che gioca tutta la pellicola. Pur mantenendo intatti gli accadimenti principali ma modificando gran parte della trama - rimarrete sorpresi fino alla fine, se avete letto il romanzo - Kenneth Branagh riesce a dare nuova vita e nuova linfa alle pagine, ammantando tutta la narrazione con la sensazione che ci sia qualcosa di più in questo mondo che nemmeno il detective più intelligente al mondo può dedurre. A noi non resta che incrociare le dita per un quarto film, che magari abbia lo stesso coraggio di questo capitolo. Perché di omicidi (e di gialli) il cinema in fondo non ne hai mai abbastanza.
Conclusioni
Concludiamo la nostra recensione di Assassinio a Venezia confermando come questa volta Kenneth Branagh si sia speso molto più che in precedenza per trasformare il romanzo originario in un thriller dalle tinte horror, per farlo poi diventare un giallo da camera ribaltando ancora una volta il punto di vista cartaceo. Convincenti le caratterizzazioni e interpretazioni dei personaggi, su tutte la chimica tra Branagh e Tina Fey e il piccolo Jude Hill, già visto nel suo Belfast. Il mistero riesce così come i colpi di scena, mentre sullo sfondo si fa strada la tematica del mondo dell’aldilà e di cosa ci aspetta dopo la morte.
Perché ci piace
- Lo stravolgimento del romanzo originario pur mantenendone fedeli i punti cardine.
- L’aver fatto diventare il romanzo un thriller horror e allo stesso tempo l'aver omaggiato il giallo da camera.
- La durata e il ritmo incalzante (coadiuvato dalla prima).
- Il cast scelto, in particolare Tina Fey nei panni di Ariadne Oliver come spalla comica.
Cosa non va
- I puristi del libro e di Agatha Christie potrebbero non apprezzare i drastici cambiamenti apportati.
- Molte sequenze e alcune caratterizzazioni dei personaggi sono esagerate (ma sono volutamente tali).