Arrivederci Dellamore, ciao
Andando a vedere Arrivederci amore, ciao abbiamo negli occhi e nel cuore il pupillo di Lamberto Bava e di Dario Argento, l'operatore della seconda unità di Terry Gilliam, il fresco autore horror/pulp de La Chiesa, ma soprattutto l'originale regista di Dellamorte Dellamore, pellicola sicuramente ingenua e criticabile, ma, grazie anche alla collaborazione di Tiziano Sclavi, autore dell'omonimo romanzo, originale ed innovativa.
Eppure, il grandissimo bagaglio di aspettative si scioglie come neve al sole dopo i primi dieci minuti della pellicola. Dopo un incipit un po' approssimativo e furbetto, ambientato nella giungla sudamericana - dove un improbabile radio capta altrettanto improbabilmente la canzone dalla Caselli ripresa (e rinominata) dal titolo - il muoversi tra le due sequenze successive ci propone una cifra del tutto "soaviana" nell'approccio con la messa in scena e costruzione del punto di vista cinematografico. Trait d'union delle due sequenze è l'ossessiva attenzione animalesca per l'entrata nel campo visivo della macchina da presa di una mosca, che nella prima condizionerà il muoversi degli attori sulla scena, e nella seconda si porrà come vero e proprio punto di vista sulla realtà. Salvo poi ritornare a quella cifra scialba e approssimativa che aveva così male impressionato già nell'incipit, scadendo spesso e volentieri nel grottesco.
Sceneggiatura con larghissimi buchi narrativo/sintattici, che si sbarazza dei personaggi, via via costruiti e inseriti funzionalmente (?) in un contesto accettabile, con battute da due righe. Così capita, per esempio, a Flora (Isabella Ferrari) che, dopo aver caratterizzato una buona metà del film, ed esser stata al centro di snodi narrativi non secondari, viene congedata causticamente. Stessa cosa per i personaggi che si inseriscono a film inoltrato, come quello di Roberta (Alina Nedelea), che narrativamente prende il posto del personaggio della Ferrari, in uno scambio totalmente disorganico e approssimativo. E dire che la sceneggiatura è opera di otto mani, essendo tre gli autori che insieme al regista hanno dato corpo allo script.
Da contrappunto a questa totale approssimazione del corpus su cui il film si innesta (tratto dall'omonimo libro di Carlotto), è la regia di Soavi, che perde quasi subito ogni pretesa di verosimiglianza e originalità. Il regista milanese asseconda gli spostamenti e le evoluzioni della trama con uno stile ordinario e piatto, rincorrendo un personaggio grammaticalmente privo di qualsiasi pretesa di somiglianza con la realtà e ai limiti della comicità involontaria. Il tutto introdotto da un incipit "politico" che pretenderebbe di innestare la storia su un piano di critica sociale e culturale. Un pur bravo Michele Placido, seppur calato in una parte stereotipata e qualunquista, non può servire a salvare il film, soprattutto se affiancato ad un Alessio Boni che tocca uno dei punti più bassi della sua carriera.
Enormi aspettative dunque, ottime pr(o)emesse, ma, alla prova dei fatti, forse il risultato più opaco della carriera del regista.