Il racconto di un evento, partendo dalle immagini. In mezzo, le parole, la musica, il concetto di eredità, per una politica che oggi sembra indifferente davanti alle necessità dello Stato. Su intuizione di Michele Mellara e Alessandro Rossi i funerali di Enrico Berlinguer diventano un film concerto, musicato da Massimo Zamboni (chitarrista dei CCCP - Fedeli alla linea), che (ri)mette insieme materiali d'archivio e interviste dell'epoca, per un collage sintomatico di un'epoca sociale e politica decisamente lontana. Arrivederci Berlinguer!, arrivato al cinema in tre date evento (10, 11, 12 giugno) si sviluppa attorno ad un evento di importanza rilevante, ricostruito dal montaggio e dalla color correction di Corrado Iuvara. Le immagini giungono dall'Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, e ripercorrono i funerali avvenuti il 13 giugno del 1984. Quarant'anni dopo, il concetto di Partito Comunista Italiano quasi non esiste più, ed è certamente impossibile rintracciare nei politicanti odierni (che siano di sinistra o di destra) la stessa lungimiranza popolare di Berlinguer.
E di Arrivederci Berlinguer! ne abbiamo parlato proprio con Michele Mellara e Alessandro Rossi, partendo dal simbolismo di un funerale che, adesso, appare come una celebrazione: "Abbiamo provato a sintetizzare questo meraviglioso film collettivo concentrandoci su alcuni punti. Sicuramente la folla oceanica, che si riconosceva in un leader. Una folla che inondò Roma. Un commiato doloroso, ma di partecipazione emotiva del popolo. Di rappresentazione della politica stessa. Rimontandolo, abbiamo evidenziato alcuni punti cardine, puntando al piglio più umano. Come Barbato che racconta della sua prima tessera del PCI. Poi ci sono opinioni di impegno politico più netto, come il referendum sul divorzio, o i vari congressi tenuti da Berlinguer".
Arrivederci Berlinguer!, Michele Mellara e Alessandro Rossi raccontano il film
Un funerale è, per antonomasia, la celebrazione dolorosa e drammatica di una fine. Quello di Enrico Berlinguer, però, ha idealmente sancito anche la fine del PCI, come spiegano i registi: "La fine del Partito Comunista può essere iniziata con il funerale di Berlinguer. Un'esperienza politica che da lì a pochi anni naufragherà, o comunque precipiterà insieme a tutti gli altri partiti all'interno di Tangentopoli, Mani Pulite. E quindi sì, è una stagione politica che si chiude in quegli anni. Finiscono i partiti di massa, finisce la mediazione dei partiti rispetto alla politica. Le facce che compaiono al funerale e che si intravedono dietro al feretro sono facce che avremmo poi conosciuto nella politica degli anni successivi della sinistra e non solo".
In Arrivederci Berlinguer! si affronta, magari non direttamente, il concetto di eredità politica. Ma ha senso parlare di eredità, rispetto ad epoche diverse? "Il lascito di Berlinguer è un'idea di politica, un'idea che si basa su una prospettiva di un pensiero a lungo termine. Oggi la sua figura dovrebbe portarci a trovare un rapporto più sano tra politica e cittadini. Lui era un leader in prima persona, portando avanti battaglie in nome dei diritti. Un'ottica chiara e di lungo respiro. Sono elementi che ci fanno riflettere sull'Italia di oggi. Ogni stagione poi ha i propri leader, e va analizzata a sé, pur essendo legata al passato". E proseguono "Oggi la politica ascolta poco? Sì, ma anche perché forse anche noi abbiamo cose meno interessanti da dire. Il PCI era chiaramente il massimo rispetto ad una politica ramificata verso la quotidianità delle persone. Tant'è che mettiamo in risalto nel film i bambini e i braccianti, parte del popolo che sembra restare fuori, e che invece viene coinvolto nella quotidianità del partito. Mettiamo in scena la partecipazione diretta della politica, come quando Berlinguer va a parlare con 50 operai dell'Alfa Sud. Era talmente un modo migliore di fare politica che è inutile sottolinearlo".
La classe operaia del cinema italiano
A proposito, oggi esiste ancora un'Italia della classe operaia? E in qualche modo, il mondo del cinema, può rappresentarla? "Sicuramente esiste un Italia operaia. Mi sembra abbastanza evidente che l'Italia Operaia è minoritaria rispetto agli anni '70, come numeri, come partecipazioni. Sotto un certo aspetto, è più difficile trovare moti di coesione che mettono insieme tanta gente. E vale anche per il cinema, perché anche nel cinema c'è un lavoro operaio. E come tale, giustamente, va sindacalizzato e va regolamentato e aiutato nel momento di crisi. Però se uno l'allarga lo sguardo la classe operaia è molto più disintegrata, molto più frammentata", spiega Alessandro Rossi.
Per Michele Mellara, invece "La chiamiamo proletarizzazione del lavoro culturale, di cui immagino fa parte anche il mondo dei giornalisti. Nel senso, c'è stata una trasformazione del lavoro culturale in un lavoro svilito in termini economici. E questo è molto forte, nel senso che un po' deriva dal fatto che il trionfo della società dello spettacolo ci ha trasformato tutti quanti lavoratori non specializzati. Ed è un cambio radicale. Se hai in mente il mondo del cinema pensando solo a quei sette che vanno a Cannes o ai grandi festival o vincolo gli Oscar, devi considerare che attorno c'è un universo composto da svariate migliaia di persone che vivono in uno stato di sopravvivenza artistica ed economica. E in Italia, il dibattito su questo, pare non esistere". Come dargli torto?