Dove le parole falliscono, parla la musica
Hans Christian Andersen lo aveva colto in pieno: è quel potere emotivo, inafferrabile, difficile da tradurre in forma scritta, tipico di una musica capace di comunicare là dove mille parole fallirebbero. Una crociata dei sentimenti vinta con la forza di note e melodie, in grado di attaccare anche le fortezze più inespugnabili, i cuori più glaciali.
Come sottolineeremo in questa recensione di Amusia, vi sono però menti che non riescono a codificare le sinfonie musicali; cuori che non battono all'unisono di melodie rassicuranti, o note malinconiche; ci sono persone che, come suggerisce il titolo stesso dell'opera prima di Marescotti Ruspoli (vincitore del premio del pubblico al 26° PÖFF Tallinn Black Nights Film Festival), vivono senza musica.
Un disturbo insidioso, meschino, il loro, che tramuta la dolcezza di una nota, o la forza di una voce, in suoni stridenti, fastidiosi, insopportabili. Un disturbo che, tra le mani del giovane regista, diventa anche pretesto per parlare di amore nello stesso modo in cui lo farebbe una canzone: con delicatezza, sottovoce, trasportata da enfasi strumentali in formato visivo, e colori pastello in un oceano di ombre; il tutto mentre il cuore inizia a battere, e il resto vive sospeso, immobile, in una luna di miele senza musica.
Amusia: la trama
L'amusia, dal greco "a-musia" ovvero "mancanza di armonia", è una malattia cerebrale che impedisce a chi ne soffre di sentire la musica. Questa subisce una distorsione sonora, provocando un disturbo uditivo. Il film affronta la patologia in maniera sottile: attraverso una storia d'amore tra una ragazza che "scappa" dalla musica e un ragazzo che "sopravvive" grazie alla musica. Un'infanzia solitaria, e troppi pregiudizi da cui difendersi, spingeranno la giovane protagonista Livia a fuggire lontano e incontrare così un ragazzo a lei del tutto opposto e complementare. Una conoscenza rivoluzionaria per entrambi, compiutasi nello spazio di un microcosmo provinciale, vagamente surreale, fatto di edifici metafisici, motel a ore, luci al neon. E musica.
Sei bella che la musica non c'è
È una relazione che nasce silenziosa, in punta di piedi, con la paura di farsi sentire, quella posta al centro di Amusia; è una storia agli albori, muta, proprio come muta è a tratti la colonna sonora di un film che tocca un disturbo che impedisce a chi ne soffre di comprendere, eseguire e apprezzare la musica. Quei suoni eleganti, quelle note salvifiche che danzano nello spazio di un'immaginazione, ora si fanno suoni distorti, acuti, fastidiosi. Una condivisione della percezione soggettiva della protagonista che permette di investire il mondo di nuove forme, modificandolo e rendendolo più ombroso, timoroso, minaccioso solo con la forza di onde sonore.
Melodie, grida, silenzio: sono sfumature divergenti dell'apparato uditivo che si fanno input sinestetici di luci e ombre, colori pastello e neon cangianti. Tra profondità di campo e jump-cut, tra musiche e silenzi, Amusia si fa metronomo visivo pronto a dare il ritmo alla fuga di una ragazza che scappa dalla musica (e insieme ad essa anche da quel nucleo domestico che la stessa musica rappresenta), e all'esistenza di un ragazzo che grazie alla musica riesce a sopravvivere.
Mistero e malinconia di una location
Ci sono casi in cui il mondo circostante dice molto più di quanto vorremmo sul nostro modo di fare, pensare, sentire. Basta solamente aprire gli occhi e scrutare attentamente i significati riflessi, e gli elementi reduplicanti di estri nascosti che si celano fra gli inframezzi di opere architettoniche, o campi coltivati. E quello che circonda i personaggi di Amusia è un ambiente parlante; anzi, più che parlare, lo spazio attraversato da Lucio e Livia urla a gran voce caratteri e fragilità, sensazioni e abitudini. Si pensi solo alla struttura geometrica dell'architettura razionalista e a come si adatti perfettamente a una mente inquadrata, abitudinaria e pre-impostata come quella di Lucio. Il borgo metafisico di Tresigallo (posto tra Ferrara e le Valli di Comacchio), e il cimitero di San Cataldo, alla periferia di Modena, si fanno pertanto cartine di tornasole di menti poste tra la realtà e le proprie paturnie, l'ordinarietà sterile e gli sguardi trasognanti di due anime perdute tra paure e sogni infranti.
"Sogni", come il nome della struttura di colore azzurro che fa da casa a Lucio, ma che in realtà nacque come spogliatoio in epoca fascista. Oggi trasformato in centro espositivo, è interessante notare come grazie a Ruspoli l'ambiente torni in un qualche modo alla sua funzione originaria, quella di uno spazio adibito allo svestirsi, proprio come a spogliarsi delle proprie difese sono i due protagonisti, messi a nudo, uno di fronte all'altro, tra paure e mancanze, desideri e rimpianti. La scelta di una location non è mai casuale, e quelle selezionate dal regista, e illuminate dalla fotografia di Luca Bigazzi si fanno cornici e sfondi metafisici di altalene esistenziali che dondolano tra una vita a cui si aspira, e una limitazione psicologica auto-impostasi.
Colorare il mondo tra sogno e realtà
Vive sospinto in un'atemporalità trasognante, Amusia: un'era pre-tecnologica in cui i giovani si mescolano agli anziani, strappandosi e donandosi a vicenda barlumi di fugace felicità. Il risultato che ne consegue è un'opera prima coraggiosa, che riempie lo sguardo di continui stimoli visivi, così da prendere per mano lo spettatore e gettarlo in un mondo a parte, sospeso, irreale e verosimile allo stesso tempo. Come un quadro contemporaneo, Amusia ha bisogno di occhi attenti per trovare un significato nascosto dietro la sua realizzazione.
I giochi di tonalità complementari come il rosso e il verde si fanno sfumature cromatiche di emozioni in lotta tra loro, tra la paura di aprirsi, e la necessità di condividere sprazzi di vita insieme. Vive De Chirico nell'opera di Ruspoli, così come vive Fellini, Antonioni e Bertolucci. Un ritorno alla Nouvelle Vague di stampo italiano che parla, sussurra, parole mute agli occhi dei propri spettatori, per comunicare - proprio come l'arte metafisica insegna - l'essenza situata oltre l'apparenza fisica della realtà, al di là dell'esperienza dei sensi (quelli uditivi compresi).
Una musica può fare...
Tutto nasce da una disarmonia musicale, ma Amusia vive in seno a una perfetta armonia fotografica. Ogni inquadratura è un perfetto connubio tra il viso degli attori e i tagli di luce che li fende, i colori dei loro vestiti e quelli dello spazio circostante. Le riprese frontali, colorate di tonalità pastello, sembrano copertine di compilation "indie", con un pizzico del cinema di Wes Anderson. Una giostra visiva che attira lo sguardo ed eleva luci e ombre, colori e ambientazioni, a personaggi a se stanti.
È una storia di sopravvivenza, Amusia; un trattato sull'affidarsi a qualcosa o qualcuno per restare a galla e continuare a respirare. Che sia la musica, o un ragazzo conosciuto alla reception di un motel poco cambia. Lucio e Livia si fanno rappresentanti cinematografici di chi non sceglie qualcosa perché "gli piace, ma perché gli serve", o di chi rimane empaticamente sordo al resto del mondo. Un dipinto astratto, fatto di mondi e corpi riconoscibili, ma che solo gli occhi più puri e attenti coglieranno il suo vero significato: quello della paura di provare emozioni, di condividere sogni e timori, felicità e dolori. Una lontananza empatica che colpisce sempre più una società egocentrica, pronta a soccombere all'onda emotiva e sentimentale di suoni, musiche, o sguardi di intesa.
Sono tessere di un puzzle volutamente disordinato, poco lineare e sincopato, le sequenze che vivono in Amusia. Una galleria visiva non scevra di lacune narrative, o di meri riempitivi non sempre utili, o necessari, ai fini del racconto. Ciononostante, il risultato finale è un'opera che convince, che colora lo sguardo e pone fiducia sul futuro di un regista giovane, sognatore e fuori dal tempo, proprio come i suoi personaggi; proprio come gli spazi che ha immortalato.
Conclusioni
Concludiamo questa recensione di Amusia sottolineando come il giovane regista Marescotti Ruspoli sia stato capace di sopperire alla mancanza di suoni e musiche per narrare una storia d'amore fuori dal tempo e dallo spazio. Posti nella cornice di uno scenario metafisico, i giovani Livia e Lucio riescono a trovarsi e capirsi, nonostante le differenze che li caratterizzano, e il passato doloroso da cui scappano. Grazie alla fotografia di Luca Bigazzi, Ruspoli scrive una poesia d'amore con la forza del colore, delle immagini e di performance attoriali convincenti e profonde. Una poesia che inebria gli animi, e riempie il cuore.
Perché ci piace
- La fotografia di Luca Bigazzi.
- La regia di Ruspoli.
- La scelta azzeccata di location capaci di restituire quel carattere metafisico che investe tutta l'opera.
- La naturalezza e la verosimiglianza dei dialoghi.
Cosa non va
- Certe lacune narrative lasciate sospese.
- Un polo genitoriale poco indagato.
- La durata elevata dedicata a certe scene, come quelle di danza.