Due mesi fa, commentando la première La notte delle elezioni, sembrava lecito poter esprimere più di qualche speranza nei confronti della settima stagione della serie antologica targata FX. Reduce dal ben poco riuscito Roanoke, con Cult American Horror Story decideva di puntare sull'attualità (la vittoria a sorpresa di Donald Trump nel novembre 2016) e sull'analisi di una società dilaniata da tensioni, rabbia repressa, paura e isteria; e il primo episodio, incentrato sulla fobia per i clown (in provvidenziale coincidenza con l'uscita di It), ci regalava diverse buone premesse.
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A dieci puntate di distanza, purtroppo, la fiducia nei confronti degli showrunner Ryan Murphy e Brad Falchuk è andata dissipandosi di settimana in settimana, così come l'interesse del pubblico statunitense, dimezzatosi letteralmente dal primo all'undicesimo episodio. E proprio questo season finale, Great Again , diretto dalla "figlia d'arte" Jennifer Lynch, ha tentato di recuperare gli elementi politici già presenti nella première, evidenziando però difetti e limiti di una stagione che conferma purtroppo l'impasse creativa di quella che, almeno fino a Coven, è stata una delle serie più innovative e coinvolgenti della TV USA.
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Kai vs. Ally, ultimo round
Costruito attraverso un meccanismo di incastri temporali fra un prossimo futuro - il 2018 - e i flashback ambientati nel presente, Great Again porta rapidamente a conclusione le vicende della setta di assassini capitanata dal folle Kai Anderson. Nella notte in cui Kai e i suoi adepti si preparano a un'autentica "strage degli innocenti", con il massacro di un centinaio di donne incinte, un team di agenti SWAT fa irruzione nel loro quartier generale: non certo un colpo di scena per noi spettatori, già consapevoli del doppio gioco portato avanti da Ally Mayfair-Richards, la quale in breve tempo è riuscita a soggiogare Kai manovrandolo con una facilità a dir poco eccessiva. La trasformazione di Ally, prima una donna fragile in preda a nevrosi e insicurezze paralizzanti, ora una fredda e astuta calcolatrice in grado addirittura di uccidere a sangue freddo, è stata talmente radicale da risultare priva di ogni possibile verosimiglianza (ma questo problema era già evidente negli scorsi episodi).
Da qui in poi, Great Again procede con una drastica accelerazione degli avvenimenti: da una parte la prigionia di Kai, che sfrutta il circoscritto ambiente carcerario per costruirsi un altro, piccolo esercito di adepti; dall'altra la nuova esistenza di Ally, eletta suo malgrado icona femminista, fino a una svolta che la condurrà a entrare in politica da indipendente, candidandosi alla carica di senatrice. Il momento clou, intuibile con notevole anticipo, arriva negli ultimi minuti della puntata: nel bel mezzo di un confronto televisivo fra Ally e il proprio avversario, l'evaso Kai si materializza al cospetto della sua nemesi, determinato a ucciderla in un simbolico gesto di repressione rivolto all'intero genere femminile. Ma ancora una volta, Kai è stato superato in astuzia dalla previdente Ally, la quale, da orgogliosa nasty woman, è pronta a sbarazzarsi definitivamente di lui (e a sfruttare l'occasione per assicurarsi quell'agognato posto in Senato).
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American Horror Story e la crisi del settimo anno
Se la struttura e le dinamiche di questo episodio vi ricordano qualcosa, il senso di déjà-vu è più che comprensibile: Great Again ripropone infatti a grandi linee quanto già visto cinque anni fa ne La fine dei giochi, capitolo conclusivo della più gloriosa stagione di American Horror Story, il capolavoro Asylum. Le analogie fra Ally Mayfair-Richards e un'altra grintosa 'sopravvissuta', la giornalista Lana Winters, si sprecano, e non solo perché i due personaggi condividono la medesima interprete, la magnifica Sarah Paulson (a Lana Winters, fra l'altro, è dedicata una fugace citazione nei dialoghi di Great Again), mentre l'uccisione 'programmata' di Kai rievoca il colpo di pistola sparato da Lana contro Johnny Morgan. Ma il problema di American Horror Story, oggi, non risiede solo in questa sostanziale crisi d'ispirazione, che lo porta a rielaborare senza troppa inventiva i modelli delle stagioni precedenti: il suo difetto più grave è piuttosto l'incapacità di sviluppare un intreccio davvero accattivante e dotato di un'effettiva coerenza interna.
Nel corso di Cult, del resto, si sono sprecate le forzature, le ridondanze, i twist troppo repentini e improbabili per ottenere una sospensione dell'incredulità, e a risentire di una scrittura mediocre sono stati i personaggi stessi: delle incongruenze di Ally si è già parlato, ma pure il ritratto di Kai Anderson è apparso costantemente in bilico tra quello di un formidabile genio del crimine e un irascibile psicopatico alle soglie della macchietta. Se questa settima stagione ha comunque superato la soglia della sufficienza, pertanto, il merito va attribuito soprattutto ai suoi due incontrastati mattatori: Sarah Paulson ed Evan Peters, ovvero i due attori-simbolo di American Horror Story fin dalle origini, sono riusciti a destreggiarsi come meglio potevano fra le lacune di una sceneggiatura quanto mai imperfetta, conferendo più di un barlume di credibilità a una stagione sempre più incerta e zoppicante. E non basta l'inquietante "colpo di coda" dell'ultimissima sequenza, con un cappuccio nero a rivelarci il lato oscuro di Ally, ad arginare il rimpianto per una serie precipitata in un declino che si teme ormai irreversibile.
Movieplayer.it
2.5/5