Un'altra stagione di American Horror Story giunge al termine e altre due sono in arrivo. La macchina televisiva di Ryan Murphy sembra non conoscere stanca, almeno nel ritmo delle produzioni, forse un po' di più sui contenuti. Anche se proprio nell'anno appena concluso ha dimostrato di aver ritrovato una certa direzione creativa con Dahmer - Mostro su Netflix. Come si inserisce nel quadro generale della sua carriera questa nuova stagione della sua prima serie antologica? Dopo le nostre impressioni sui primi episodi, torniamo a parlare dell'undicesima stagione nella spiegazione del finale di American Horror Story 11 NYC, disponibile dal 15 febbraio su Disney+ Star.
Chi è Big Daddy?
Nel doppio finale di American Horror Story 11 NYC, intitolato "Requiem 1981/1987", tutti i personaggi, ricordando il finale di serie di Six Feet Under, arrivano alla propria morte. Ed ecco la rivelazione: Big Daddy, il minaccioso uomo muscoloso vestito di pelle e borchie, interpretato nello show da Matthew William Bishop, è in realtà un'allegoria della malattia che colpì il mondo negli anni '80 raccontati dalla serie: l'HIV che divenne AIDS. La stagione ci è stata presentata fin dall'inizio come una denuncia sociale della disinformazione (anche sessuale) che ci fu all'epoca, già raccontata in vari film e serie tv (l'esempio più recente è la bellissima e struggente It's a Sin su Lionsgate+, che vi consigliamo), a causa dell'omofobia e dello scarso interesse da parte della polizia per "una manciata di gay morti". L'undicesima stagione, la più terrena finora e quasi più legata all'antologia di American Crime Story, aveva presentato due possibili serial killer che stavano decimando la comunità gay negli anni '80 a New York: Big Daddy, per l'appunto, e il Killer del Mai Tai, rivelatisi due persone distinte.
O meglio rispettivamente una manifestazione della malattia e un uomo in carne ed ossa, Mr. Whitely (interpretato dall'inquietante Jeff Hiller), che smembrava alcuni organi e parti del corpo dalle vittime per ricomporle in una sorta di Frankenstein che fungesse da rinascita e "testimonial" per la comunità LGBT. Una storia ispirata a fatti realmente accaduti, come il blackout del 1981 a New York City che avvenne per davvero, rendendo questa stagione molto vicina anche a The Watcher, altra recente creazione di Murphy per Netflix, per come ha mescolato realtà e fantasia. L'orrore può assumere varie forme, non solo soprannaturali, ed una di queste è sicuramente un virus che si sparge a macchia d'olio, non si conosce una cura né come fermarlo. Del resto gli ultimi tre anni ci hanno mostrato proprio questo: la paura come sentimento comune a livello globale (a causa della pandemia). Quindi non ci sembra un caso che proprio questa stagione abbia trattato questo tema.
Feticcio murphiano
Bid Daddy è solo l'ultimo killer mascherato di American Horror Story nato dalla mente di Ryan Murphy e Brad Falchuk, dopo Rubber Man (nella stagione inaugurale Murder House e nello spin-off American Horror Stories), Bloody Face (nella seconda stagione Asylum), Twisty (nel quarto ciclo Freak Show), Piggy Man (nella sesta stagione Roanoke), senza dimenticare i membri della setta al centro della settima stagione Fear Is Truth che indossavano maschere da clown. Il lavoro fatto con Big Daddy è simile a quello visto nel quinto ciclo di episodi, sottotitolato Hotel, con il Demone della Dipendenza che diventava espressione della tossicità dei personaggi all'interno del complesso alberghiero. Visivamente nulla è stato lasciato al caso dal prolifico showrunner e Big Daddy è rappresentato e vestito con indumenti conosciuti nella subcultura leather, anche per confondere le acque verso gli spettatori.
Comprendiamo quindi che più Big Daddy si manifesta ai personaggi e più gli arriva vicino, colpendoli, più significa che lo stadio della malattia è grave e sono vicini alla morte. Una sorta di rappresentazione della Morte sottoforma di feticcio LGBT. Nel doppio finale assistiamo così alle morti dei personaggi di Isaac Cole Powell, Zachary Quinto, Russell Tovey, e infine Joe Mantello, che ha fatto da voice over per tutta la vicenda grazie al proprio lavoro di giornalista e alla propria esperienza. Sopravvive, forse un po' a sorpresa, Adam (Charlie Carver, che ha partecipato anche alla sceneggiatura di alcuni episodi della stagione), che dopo aver scoperto della morte dell'amica Hannah Wells (Billie Lourd), la dottoressa che indagava proprio sul virus, si è prodigato per spargere la voce sul fare sesso sicuro e far conoscere le devastanti conseguenze della malattia. Emblematica la frase che gli dice il personaggio di Patti LuPone, Madame Kathy: "Sei troppo giovane per preoccuparti di come non morire".
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La morte è la risposta
Ryan Murphy e Brad Falchuk sono quindi tornati negli anni '80 dopo la nona stagione, sottotitolata 1984, ma mentre lì veniva utilizzato il topos narrativo del campeggio estivo tipico di un determinato filone di horror, qui l'epoca rappresenta la denuncia sociale di quanto accadde per davvero con la diffusione dell'AIDS nella Grande Mela come in molte altre metropoli del mondo. La morte sarà purtroppo la risposta per quasi tutti i protagonisti, che in un modo o nell'altro sono entrati in contatto col virus, molti anni prima che venisse studiato e "compreso". La morte è anche la paura che accomuna la comunità LGBTQIA+ da sempre e qui viene ben rappresentata da un omone che sovrasta anche fisicamente le proprie vittime e le fa soccombere a sé. Senza distinzione di classe sociale o altro, proprio come fece la malattia. Tutti questi aspetti, compreso il ritorno di esibizioni canore da parte di Patti LuPone come omaggio al lavoro precedente del duo, Glee, conferma che l'undicesima stagione di American Horror Story è a tutti gli effetti una summa delle stagioni precedenti attraverso le tematiche, le ambientazioni e i personaggi che affronta, forse addirittura più di quanto fece la dichiaratamente citazionista Apocalypse (ottava stagione).