Lo so che sembra orribile. Lo so che sembra un tradimento. Ma lei era la sua vittima; ha causato tutto lui. È stato lui. Spero che lei possa rendersi conto che l'ho salvata.
È una giustificazione pronunciata a denti stretti; una giustificazione che suona come una bugia. Alle ultime parole di Linda Tripp, il tentativo disperato di fornire la propria versione dei fatti, si sovrappone nell'inquadratura finale l'immagine di Monica Lewinsky, in preda al panico d'innanzi alle grida della folla e ai flash dei fotografi. "Starò bene", è la frase mormorata dalla ragazza mentre impara a convivere con il trauma che ha travolto la sua esistenza: un trauma individuale trasformato in un gigantesco evento mediatico, ovvero il maggiore scandalo politico nell'America di fine millennio. La compenetrazione fra pubblico e privato, la storia di una nazione che si intreccia con le storie personali di uomini e donne, sono il punto di partenza della nostra recensione del finale di American Crime Story: Impeachment: una serie che ha retto magistralmente il confronto con i due capitoli precedenti, sviluppando nell'arco di dieci episodi un'altra vicenda cruciale della società e della cronaca degli anni Novanta.
Il Sexgate: nell'occhio del ciclone
A partire dalla settima puntata, L'assassinio di Monica Lewinsky, le rivelazioni dell'ex-stagista della Casa Bianca, interpretata da Beanie Feldstein, diventano infatti di pubblico dominio. Da quel momento in poi, l'autrice Sarah Burgess imprime una svolta netta alla narrazione: dal rapporto fra Monica Lewinsky e la Linda Tripp di Sarah Paulson, lo sguardo della serie si allarga a una catena di eventi che appartengono in tutto e per tutto alla storia contemporanea degli Stati Uniti e, per certi versi, all'immaginario collettivo dell'ultimo decennio del ventesimo secolo, includendo così il reenactment di interviste televisive e discorsi davanti alle telecamere. Il Sexgate, esploso nel gennaio 1998, avrebbe catalizzato l'attenzione mediatica per un intero anno: il 17 agosto, dopo la sua testimonianza davanti al Gran Giurì, Bill Clinton ammette di aver intrattenuto una "relazione inappropriata" con Monica Lewinsky, mentre il 9 settembre al Congresso viene consegnato il Rapporto Starr, contenente undici possibili capi di imputazione per il processo di impeachment.
The Wilderness, episodio conclusivo di American Crime Story: Impeachment, riparte da qui: la pubblicazione del Rapporto Starr, in un clima di frenesia collettiva caratterizzato anche dall'importanza crescente di internet nell'ambito di un'informazione ancora dominata dalla TV. Mentre ci vengono mostrate le reazioni di tutti i diversi attori di questo dramma, è una pennellata sarcastica a sottolineare la morbosità dei dettagli sessuali inseriti nel rapporto: "Sono fatta? Ho preso LSD?", si domanda incredula la giornalista ultra-conservatrice Ann Coulter (un'irresistibile Cobie Smulders, capace di fermarsi a un passo dalla parodia). "No, è tutto vero", le viene risposto; "Questo è un vero rapporto al Congresso americano". "Finalmente a pagina 154 sto vedendo un argomento legale... no, è solo altro sesso", è il commento lapidario della donna.
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Sesso e politica
Si tratta di una delle rare parentesi di ironia di un racconto condotto costantemente lungo i binari del dramma; quel dramma che Monica, logorata dalla pressione mediatica, talvolta cerca di stemperare con una scherzosa autocommiserazione. E nel ripercorrere l'ultimo atto dell'affaire Clinton-Lewinksy, Sarah Burgess applica un saggio uso dell'ellissi: i fatti trattati sono talmente noti che non c'è bisogno di illustrarne ogni singolo tassello, e pertanto di quell'impeachment che dà il titolo alla serie assistiamo solo all'esito del voto della Camera dei Rappresentanti, il 19 dicembre 1998. Tutto il resto, inclusa l'assoluzione di Bill Clinton da parte del Senato il 12 febbraio 1999, viene sorvolato, così da lasciare maggior spazio al "dietro le quinte" dello scandalo. A sintetizzare il fallimento del Partito Repubblicano nel suo assalto alla Casa Bianca è ancora una volta Ann Coulter, che parlando dei Clinton chiosa con amarezza: "Loro sono quelli che l'America vuole al potere; non noi".
Se il Bill Clinton di Clive Owen, incarnazione stessa del potere, appare come una figura mai completamente decifrabile, è sua moglie Hillary a conquistare la ribalta nell'episodio Stand by Your Man, interamente focalizzato su di lei. Al di là del look mimetico, Edie Falco restituisce la serietà, la compostezza, la silenziosa sofferenza e la rabbia repressa della First Lady, evitando sbavature melodrammatiche ma lasciando emergere la sua dignità ferita. E la puntata finale sancisce proprio l'inizio del riscatto di Hillary Clinton, destinataria dell'empatia degli americani e avviata a una brillante carriera politica. Non a caso la sua parabola ascendente viene messa in contrapposizione, in un impietoso montaggio alternato, con la sessione di fotografie erotiche di una Paula Jones (Annaleigh Ashford) allo sbando, considerata una pedina ormai inutile nella partita dei repubblicani contro il Presidente degli Stati Uniti.
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Linda Tripp, la grande sconfitta
Ma a proposito di antinomie, quella più emblematica, anche in questa occasione, è imperniata sul confronto fra Monica Lewinsky e Linda Tripp, l'amica e confidente che tradì la fiducia della giovane e, usando le registrazioni dei loro colloqui telefonici, l'avrebbe gettata nelle mani dell'FBI e da lì in poi nel tritacarne dei media. La prospettiva di Monica Lewinsky (che si è prestata alla serie in qualità di consulente) è quella privilegiata per la maggior parte della narrazione, e il ritratto di Beanie Feldstein ne evidenzia l'ingenuità, lo sgomento, la vergogna e, infine, la speranza di ricostruirsi una nuova esistenza. "Odio Linda Tripp", era stata la liberatoria frase di chiusura di Monica nella sua deposizione davanti al Gran Giurì, e Linda ritorna al centro della scena proprio negli ultimi due episodi: le sue risposte al Gran Giurì, intrise di paranoia, smascherano l'ipocrisia delle motivazioni della donna, che una sublime Sarah Paulson dipinge come l'inconsapevole vittima di se stessa.
Se la storia della Lewinsky aderisce infatti agli archetipi della caduta e del riscatto, Linda Tripp è invece la figura più autenticamente tragica di American Crime Story: Impeachment: una villainess shakespeariana il cui machiavellismo non si rivela abbastanza efficace da risparmiarle lo scorno dell'opinione pubblica e la delusione di veder svanire il suo grande progetto di scrivere un (ennesimo) libro-verità. Quando, in prossimità dell'epilogo, osserva il best-seller della Lewinsky esposto in una vetrina, la delusione e il risentimento stampati sul volto di Linda Tripp non potrebbero essere più palesi. "Lei ha sofferto molto. E ha scritto di non riuscire a credere alla crudeltà di qualcuno in grado di registrare quel dolore", è l'accusa che le viene rivolta; e l'imbarazzo nello sguardo della Paulson è il segno di un'autoillusione che sta crollando a pezzi, la spia di un senso di colpa che nessun lifting può far sparire.
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Conclusioni
Come abbiamo rilevato nella nostra recensione del finale di American Crime Story: Impeachment, la massima virtù dell’opera firmata da Sarah Burgess risiede dunque nella capacità di adoperare i codici del docu-drama per raccontare lo smarrimento, i dilemmi morali e le dilanianti contraddizioni dei suoi personaggi. La terza stagione della serie antologica della FX rifiuta il facile manicheismo, né si adagia su un approccio didascalico, ma utilizza una celebre pagina di cronaca politica con un duplice scopo: offrire uno spaccato dell’America in un momento pivotale nell’evoluzione dell’infotainment ed esplorare l’umanità imperfetta di uomini e donne alle prese, loro malgrado, con la Storia.
Perché ci piace
- Un racconto approfondito ma mai didascalico, coinvolgente pur senza far leva sul sensazionalismo, costruito attorno alla scrittura rigorosa di Sarah Burgess.
- L’abilità nel dipingere virtù e debolezze di un piccolo gruppo di comprimari, evitando gli schematismi ma lasciando emergere le ragioni e il vissuto di ciascun protagonista.
- Un epilogo che, nel sorvolare su alcuni passaggi cruciali del Sexgate, trova spazio per sottolineare gli aspetti più intimi e privati nelle esistenze dei personaggi.
- Un’eccellente squadra di interpreti, in cui la most valuable player rimane una mostruosa Sarah Paulson in una delle sue migliori performance.
Cosa non va
- Alcuni personaggi secondari che, giocoforza, risultano sviluppati in maniera meno accurata.