Non era mica Mozart che rideva, padre... era Dio! Era Dio che si beffava di me con quell'oscena risata!
C'è una tensione costante che percorre l'intera durata di Amadeus (i centosessanta minuti della versione originale del 1984 e i centottanta della director's cut del 2002): una tensione che il compositore Antonio Salieri rimarca più e più volte, figlia dell'estasi e del tormento. L'estasi provata al cospetto della perfezione, una perfezione talmente assoluta da risultare incomprensibile, e il tormento di non poterne neppure sfiorare il segreto: l'unica cosa da fare è contemplarla in silenzio, lasciarsi pervadere da quella misteriosa magia. Una magia che nel film di Milos Forman, e prima ancora nel dramma teatrale di Peter Shaffer, ha un nome ben preciso: Wolfgang Amadeus Mozart.
Ispirato all'opera in versi Mozart e Salieri di Aleksandr Puskin, portato in scena per la prima volta a Londra nel 1979 con Paul Scofield e Simon Callow e approdato a Broadway nel 1980 con protagonisti Ian McKellen e Tim Curry (mentre un anno più tardi sarebbe stato Roman Polanski a dirigerlo ed interpretarlo sui palcoscenici di Varsavia e di Parigi), l'Amadeus di Peter Shaffer è uno dei maggiori classici del teatro contemporaneo. Ed è stato proprio il drammaturgo inglese a firmare l'omonima trasposizione che il 19 settembre 1984 avrebbe debuttato nei cinema americani, affermandosi come uno dei titoli più acclamati del decennio: quindici milioni di spettatori solo negli Stati Uniti, con una permanenza da record (quasi un anno) nelle sale, e la vittoria di quattro Golden Globe e otto premi Oscar, tra cui miglior film, regia e sceneggiatura.
Mozart fra mito e storia
A distinguere Amadeus dalle innumerevoli biografie più o meno romanzate prodotte per il grande schermo non è tanto la sua (scarsa) fedeltà storica: a Peter Shaffer e Milos Forman non interessa elaborare un'accurata ricostruzione dell'esistenza del genio musicale di Salisburgo, quanto inserire il suo 'mito' al centro di un racconto su una rivalità tragica e logorante. Reale o fittizia importa poco, anzi nulla: senza lasciarsi ingabbiare da rigidi vincoli, Amadeus utilizza le vicende intrecciate di Mozart e Antonio Salieri per assumere un respiro molto più ampio, in cui il grande affresco d'epoca si unisce ad una riflessione dal valore universale sulla natura del talento. E basterebbe anche solo il primo aspetto per considerare Amadeus un film straordinario: un quadro emblematico per comprendere la cultura e la società europee al tramonto del diciottesimo secolo.
Un mondo di cui Milos Forman rappresenta le ipocrisie, l'horror vacui e le subdole dinamiche legate al potere con quell'ironia dissacrante che caratterizza sia le sue prime commedie, girate negli anni Sessanta nella natia Cecoslovacchia, sia il caposaldo della sua produzione americana, Qualcuno volò sul nido del cuculo, ma anche molte pellicole successive: lo splendido e sottovalutato Valmont, altro magistrale ritratto della classe aristocratica del Settecento, il corrosivo biopic Larry Flynt - Oltre lo scandalo e la turbolenta cronaca pre-napoleonica e post-napoleonica de L'ultimo inquisitore. E così la corte di Giuseppe II (Jeffrey Jones) viene dipinta come una fiera della vanità, tanto sfarzosa in superficie quanto vacua e meschina se si guarda appena al di là delle apparenze e dei formalismi.
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Mozart, Salieri e la voce di Dio
In questo sfavillante microcosmo, il Mozart impersonato da un irresistibile Tom Hulce (che Forman preferì a Mark Hamill e Kenneth Branagh) è il corpo estraneo, la variabile impazzita: sgraziato, volgare, irriverente, per nulla disposto a sottomettere la propria sublime arte ai veti e alle imposizioni dell'Imperatore e dei cortigiani di Vienna. Un piccolo ribelle senza freni inibitori, ma custode di un segreto inestimabile: il segreto di una musica che Antonio Salieri definisce con commosso stupore "la voce di Dio". E quella musica è una componente integrante di Amadeus: ogni sinfonia, ogni aria d'opera, fino alla Messa da Requiem, fungono da elementi narrativi veri e propri, lontani da qualunque didascalismo ma necessari, al contrario, a far penetrare lo spettatore nell'universo emotivo dei personaggi.
Ed è singolare che al cuore di tale universo non ci sia il protagonista eponimo, bensì il suo esatto opposto, la nemesi che agisce nell'ombra: il tenebroso Salieri di F. Murray Abraham, di cui Shaffer e Forman assumono in tutto e per tutto la prospettiva, lasciando che in primo piano emergano le sue ossessioni insanabili e la sua furia blasfema. Una furia scaturita da una constatazione insopportabile: che Dio possa aver scelto come proprio strumento un ragazzo rozzo e amorale. "La sola cosa che avessi mai desiderato era poter cantare Dio", osserva Salieri; "Una bramosia che lui mi aveva dato per poi rendermi muto... perché? Se lui non voleva che lo esaltassi con la musica perché instillarmene il desiderio, come una smania in ogni mia fibra, e poi negarmi il talento?".
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'Un giorno, io riderò di te...'
Dalla sua prima apparizione, con la gola ricoperta di sangue e una maschera di rughe su cui si affaccia a più riprese un ghigno sardonico, Salieri è l'anima nera di Amadeus: un'anima corrotta non tanto dall'ambizione, quanto dalla coscienza insostenibile della propria mediocrità. E l'americano di origini siriache F. Murray Abraham, premiato con l'Oscar come miglior attore (candidato in coppia con Tom Hulce), ne fornisce un'interpretazione raggelante in cui si mescolano meraviglia ed orrore, la devozione più rigorosa e l'odio più feroce. Un odio destinato a sfociare nell'iconoclastia: costretto a prendere atto dell'abissale distanza che lo separerà sempre - e per sempre - da Mozart, Salieri dà fuoco al crocefisso in un'implacabile dichiarazione di guerra a Dio.
Amadeus, in fondo, è soprattutto questo: la storia di una guerra contro Dio, condotta da un individuo che si affanna per non essere inghiottito dall'abisso. Salieri, come ribadisce lui stesso in un finale amarissimo e inquietante, è il "santo patrono dei mediocri": lo specchio delle angosce pronte a venire a galla nel momento in cui siamo messi di fronte all'inesorabile imperfezione della nostra umanità. Sono tali angosce, in fondo, a rendere Salieri una figura profondamente tragica, ma capace anche di trovare, nel momento più inaspettato, un'intima connessione con il suo nemico. "Lei ci crede a questo?"; "A cosa?", risponde stupefatto Salieri all'avversario moribondo. "A un fuoco inestinguibile che ti divora eternamente". E cos'altro sono Mozart e Salieri, se non due uomini diversissimi che bruciano della stessa fiamma?
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