È stato uno degli incontri più attesi nel calendario della Festa del Cinema di Roma 2021: quello con Alfonso Cuarón, il grandissimo cineasta messicano che, nell'arco di tre decenni di carriera, ha conquistato Hollywood dividendosi fra produzioni imponenti, da Harry Potter e il prigioniero di Azkaban a Gravity, mantenendo però le proprie radici nel cinema d'autore. Al nome di Cuarón sono legati infatti film quali il racconto di formazione Y tu mamá también e il commovente memoriale Roma, il suo capolavoro del 2018, che gli ha permesso di conquistare il Leone d'Oro alla Mostra di Venezia e tre premi Oscar (in tutto, Cuarón ha collezionato cinque Academy Award e tre Golden Globe). E a tre anni di distanza da quella sua ultima, straordinaria fatica, mercoledì pomeriggio Cuarón è stato accolto dall'entusiasmo dell'Auditorium per un "incontro ravvicinato" con il pubblico.
Si è trattato di un incontro in cui, però, Alfonso Cuarón non ha parlato della propria filmografia, ma ha reso omaggio al cinema italiano, analizzando dodici pellicole appartenenti ad epoche e generi molto differenti e manifestando la propria ammirazione per alcuni fra i maestri della settima arte, nonché per alcuni cineasti della scena contemporanea. Il punto di partenza dell'incontro, tuttavia, è stata una domanda sulla sua prima esperienza da spettatore: "Il film era La spada nella roccia, ma mi ricordo solo della scena di Merlino con la barba incastrata alla porta. Il mio amore per il cinema è esistito da quando ho memoria, ma Ladri di biciclette mi ha fatto confrontare con un cinema diverso: è stato l'inizio di una curiosità per tutto un altro tipo di cinema".
I maestri del passato, dai fratelli Taviani a Marco Ferreri
"Fuori dall'Italia, alcuni grandi registi italiani sono quasi dimenticati. Padre padrone è un film fondamentale per me. Il processo di creazione dei film di Paolo e Vittorio Taviani lo trovo un mistero: c'è un'umanità profonda, ma anche un approccio mitico e una disciplina marxista, però senza retorica. E in Padre padrone, un film pieno di sofferenza, non c'è alcun giudizio sul personaggio. I nuovi mostri invece è una giustificazione per parlare dei grandi registi della commedia all'italiana: mi riferisco a Mario Monicelli, a Dino Risi e a Ettore Scola. In quell'epoca c'erano tanti film antologici diretti da diversi registi, e la commedia all'italiana parla di tante cose: è un affresco sociale, c'è la malinconia della vita e una critica fortissima al carattere italiano. Dopo, la commedia si è convertita in una celebrazione di questo carattere, anziché una critica. Un cast come quello de I nuovi mostri è straordinario, unico al mondo!".
Le scelte successive di Cuarón sono invece due titoli di Marco Ferreri e Francesco Rosi: "Marco Ferreri è il regista più sovversivo del cinema, ma con l'assurdo di Luis Buñuel, e offre una precisa diagnosi della società e soprattutto dei maschi. Dillinger è morto è del 1969, ma è assolutamente attuale. Ferreri ha iniziato la sua carriera in Spagna con delle commedie, bellissime ma accademiche; con Dillinger è morto invece ha dimostrato di non essere un cineasta tradizionale e si è permesso di tutto, per poi continuare questo cammino in film come Non toccare la donna bianca e Ciao maschio: tutto è un casino. Dillinger è morto è un film sulla morte, ma quasi completamente silenzioso. Un'opera di Ferreri è come un incidente in mezzo al traffico: è impossibile guardare altrove. In Salvatore Giuliano, la scena del lutto della madre è l'unico momento in cui vediamo Giuliano. Tutto il resto è una mitologia di Salvatore Giuliano. La madre che piange incarna tutte le madri del mondo. Non si parla mai abbastanza dei grandi eroi del cinema italiano, le persone dietro le macchine da presa: in questo film, per esempio, il direttore della fotografia è Gianni Di Venanzo. Il suo lavoro è come luce: è tutto un terreno bianco, illuminato da un sole fortissimo".
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Fra commedia e malinconia: Mario Monicelli, Ettore Scola e Federico Fellini
"Una parte importantissima del cinema muto italiano è pure il futurismo. Nel film L'uomo meccanico c'è uno dei primi esempi di robot al cinema; forse James Cameron lo ha copiato. Questo film è stato un punto di partenza, è venuto prima di Metropolis". Dopo la parentesi sul cinema futurista, si torna ai grandi maestri della commedia all'italiana: "I compagni è un film diverso dal resto dell'opera di Mario Monicelli, e anche Marcello Mastroianni è in un ruolo diverso dal solito. Per lui sembra sempre che tutto sia facile: è uno di quegli attori che tu senti di conoscere, te lo senti amico. È per questo che Mastroianni a volte può recitare in ruoli un po' odiosi: lo spettatore non lo giudica. È il mio attore preferito di tutta la storia del cinema. I compagni è un film intriso della malinconia della vita; e più che essere ideologico, è un film umanitario.".
"Ettore Scola è un cineasta che amo veramente; C'eravamo tanto amati è il suo film in cui ha cominciato a combinare la commedia e il melodramma. È un film sul passaggio del tempo, il più bello su questo tema. L'approccio del cinema italiano al melodramma è più realistico rispetto al cinema americano, ed è un melodramma che ha anche un contesto sociale. Questi registi lavoravano durante un'epoca fortemente ideologizzata, ma film come C'eravamo tanto amati non sono ideologici. È interessante inoltre la ricerca formale di Scola da questo film in poi". Impossibile poi non spendere qualche parola su Federico Fellini: "Per la sequenza della spiaggia in Roma ho utilizzato il suono del vento della spiaggia presente nei film di Federico Fellini, come La dolce vita e Amarcord. Per me, come per ogni vero regista, Fellini è un fondamento del cinema, e del cinema moderno. Quando guardo la sua opera, è interessante la transizione da un post-neorealismo alla 'fellinità'. È un maestro della forma e della tecnica, ma con un'ossessione per la donna".
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I cineasti del presente, da Emanuele Crialese ad Alice Rohrwacher
Si passa quindi ai cineasti italiani contemporanei, a partire dallo sperimentalismo di Michelangelo Frammartino: "Vi lancio una provocazione: la narrativa è il veleno del cinema. Il cinema può esistere senza musica, senza attori, senza colori, senza suono e senza storia, ma non può esistere senza la cinepresa e il tempo. Michelangelo Frammartino è un maestro del tempo e del flusso dell'esistenza; Le quattro volte mi sembra uno dei film più importanti di questo secolo, non capisco come sia stato in grado di farlo. Frammartino appartiene a una generazione di cineasti 'puri', concentrati sul tempo. Respiro ha assorbito tutta la lezione del cinema italiano degli anni Cinquanta e Sessanta: all'inizio potrebbe sembrare un film del primo Visconti o del primo Rossellini, ma poi è un'esplosione di puro Emanuele Crialese, diventando un film più moderno ed astratto. Questo funziona perché tutto è ancorato a una realtà che è anche realtà delle emozioni".
"Valeria Golino non è solamente una bravissima attrice, ma una delle registe moderne più importanti: Miele l'ho visto a Londra ed è stata una sorpresa. Valeria si affida al momento. La natura del cinema è che la tecnica è parte del linguaggio, ma in Miele Valeria fa sparire questa tecnica: in primo piano c'è solo il personaggio, senza sentimentalismi e senza retorica. Molti registi cercano il melodramma, mentre Valeria si è tenuta a distanza, e questo è il potere del suo film. Lazzaro felice invece ricorda i film dei fratelli Taviani per questo aspetto mistico, quasi spirituale. È un pastiche: Alice Rohrwacher assorbe la lezione del passato, ma canta con la propria voce. Cerca l'umanità dei suoi personaggi, preoccupandosi anche del fattore sociale. Il personaggio di Lazzaro è bellissimo, perché non ha coscienza di sé e del suo spirito messianico".
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