Dopo l'uscita de La febbre si potrebbe azzardare un giudizio sulla prospettiva passata e presente di un regista come Alessandro D'Alatri, autore in un certo qual modo paradigmatico del cinema italiano odierno, o se non altro di una buona parte di esso.
Americano rosso e Senza pelle costituiscono un esordio che passa abbastanza in sordina. Ma soprattutto il secondo vede in embrione la traccia che il regista romano sta seguendo con i suoi "film della notorietà". Ma ci ritorneremo. Si deve passare prima inevitabilmente per il film che ha sollevato D'Alatri dall'anonimato, un film per certi versi anticonvenzionale, ma riassimilabile in toto ad una poetica che richiama soprattutto certe movenze di Americano rosso, ma anche tutta la messa in scena successiva, quella che ha consacrato l'autore al grande pubblico.
I giardini dell'Eden, perché è di questo che stiamo parlando, si muove esplorando un contesto socio-politico, così come farà Casomai e in modo più netto La febbre, che poco si lega con l'ambientazione da vangelo apocrifo nella quale il film si muove. L'impostazione caratterizzante di "film sociale" che aveva assunto la filmica d'alatriana già con i primi due lavori, e che si confermerà negli ultimi due, passa per lo snodo cruciale del film con Kim Rossi Stuart.
Sembra quasi che il regista si voglia allontanare da un contesto a lui familiare per mettere ordine le idee, per confrontarsi con un materiale che può, per certi versi, essere sganciato da una lettura quotidianistica, per ergersi a cinema in quanto tale. Operazione riuscita e fallita allo stesso tempo. Riuscita perché centrato l'obiettivo di ordinare e ordinarsi le idee su un certo modo di fare cinema, fallita per il fallito tentativo di sganciarsi dal filo rosso che marchia i suoi film "contemporanei", per involgersi in dramma storico-religioso che richiama fortissimamente tematiche e modi di altri contesti.
Cruciale e per molti versi esaustivo, I giardini dell'Eden apre le porte alla seconda, forse più importante, fase registica di D'Alatri, quella della collaborazione con Fabio Volo. Fase questa che non rinnega una virgola del D'Alatri degli esordi, ma al contrario conferma pregi e lacune del regista.
Rimane fondante e motore primo il tema sociale, che si insinua però in modo più soffuso e a tratti metaforico, riscoprendo però a volte una verbosità retorica e spesso fuori luogo. Sia in "Casomai" che ne "La febbre" si avverte questa necessità di spiegare, di illustrare con le parole anziché che con il cinema il messaggio di fondo del film. E in entrambi i casi l'operazione viene portata avanti da figure in un certo senso "estranee" al film stesso (rispettivamente il parroco e il Presidente), e al tempo stesso motore della vicenda, in un'incongruenza di fondo che lascia un po' spiazzati.
Difficoltà maggiore di un D'Alatri che si fa forte dell'innegabile personalità di Volo, è quella di non rendere artefatte, false, le sue sceneggiature, e di mantenere una coerenza e un'unità di fondo che spesso viene a mancare. Questa fatica, già intravedibile in Casomai, emerge, in modo purtroppo decisivo per il film, con La febbre, che risente pesantemente di una diffusa mancanza d'unità dello script e di passaggi spesso raffazzonati se non infantili. Tentativamente l'obiettivo del regista è quello di mettere in luce in maniera bonaria, ma mai buonista, le pecche di una società secondo lui disastrata. E da questo punto di vista D'Alatri fa un cinema che non può non essere definito "politico". Seppur non riuscendoci, gli va ascritto il merito di aver provato a dare un'alternativa a Gabriele Muccino nel cinema mainstream italiano, con risultati che però finora hanno lasciato a desiderare. Si intravedono tuttavia le potenzialità di un autore che ha il non indifferente vantaggio di essere inserito nello star system del cinema italiano, e di poterne sfruttare appieno i mezzi.
Aspettiamo dunque (ancora) il miglior D'Alatri.