Capita, raramente ma capita, di capire immediatamente la portata di un film nello stesso momento in cui inizia. È una roba sensoriale, di percezione, di intuito. Comincia a salire la sensazione di essere finalmente spettatori attivi, immersi in un contesto ben delineato in cui realtà e finzione si sovrappongono. Vero, lo aspettavamo (almeno chi scrive, essendo dichiaratamente uno smodato appassionato della contro-cultura apportata dai grandi brand) eppure Air - La storia del grande salto, diretto da Ben Affleck (un'ulteriore ri-vincita, sia come regista che come attore), oltre essere già uno dei migliori film del 2023 come abbiamo scritto nella recensione, è una grande epopea romanzesca di un'incredibile rivoluzione culturale, frullata nel focoso incipit accompagnato da Money for Nothing dei Dire Straits. La storia di un'azienda, sì, la Nike, ma soprattutto la storia di un gruppo di uomini, fedeli a sé stessi e ai loro ideali, coraggiosi nell'attimo prima del tracollo, luminari di quel marketing che, oggi, riempie la bocca di innumerevoli responsabili improvvisati, più attenti al portafoglio che all'anima.
Ma, Air, presentato (a sorpresa) al South by Southwest (rimarcando una vocazione libera, che oltrepassa le major), è anche la storia di una madre intenta a proteggere un figlio chiamato fenomeno. Attenzione, però: il parallelo che facciamo nel nostro approfondimento, vuole concentrarsi su una doppia biforcazione, arrivata dalle influenze letterarie di Phil Knight (nel film interpretato proprio da Ben Affleck) che nel 2016 ha sfornato un vero e proprio manuale di vita, oltre che di meravigliosa appartenenza: L'arte della vittoria. Autobiografia del fondatore di Nike (edito da Mondadori). Un'opera illuminante, verace, progressista. Un romanzo d'avventura in cui Knight ripercorre la mirabolante fondazione di un brand che, come vediamo in Air, avrebbe riscritto le regole dello sport, della comunicazione e dell'intera società statunitense - e di conseguenza mondiale. Pagina dopo pagina del memoir, divorato durante la claustrofobica Pandemia (sì, c'era bisogno di correre), seguiamo le intuizioni di Phil Knight: un giro del mondo, l'economia aziendale, l'epifania giapponese, un Paese definito in breve "esempio di resistenza e resilienza, ancora dilaniato dalle bombe atomiche".
Born in the USA
Ossessionato dalla corsa (ogni mattina a Portland consumava decine di chilometri), Knight intuì che le Tiger (sì, quelle di Bruce Lee) sarebbero potute essere importate negli Stati Uniti, un po' come le macchina fotografiche nipponiche che si mangiarono il mercato. Nel bel mezzo delle trattative - estenuanti - Phil Knight, insieme a Bill Bowerman, il suo coach all'Università dell'Oregon, mise in piedi quella che oggi chiameremo start-up: la Blue Ribbon Sports. Era il 1964. Quella di Phil Knight, tradotta in parte in Air, è l'American Dream al suo apogeo: nascita, caduta, rinascita. Trionfo. Perché se solo nel 1971 la Blue Ribbon si chiamerà Nike (altra emblematica ossessione: la storia greca), prima c'era stata la rottura con i giapponesi, costringendo Phil Knight a rimboccarsi le maniche, a saltare l'ostacolo e spiccare il volo, strutturando la sua piccola azienda di famiglia in quella che sarebbe diventata una mitologica azienda. Del resto "una scarpa è solo una scarpa. Almeno fino a quando non la si indossa".
Da lì in poi, il materiale umano si fonde con la storia sociale, politica e culturale degli Stati Uniti d'America, diventando estensione contraria e diretta di quel Capitalismo che strizza l'occhio al working-class-hero, avvicinandosi all'uomo della strada. Quell'uomo in cerca di speranza, di riconoscibilità, di bellezza. In cerca di icone e di leggende. In cerca di una fede dal sapore divino. Esplodendo nella decade più effimera e decadente di tutte: gli Anni Ottanta. Ronald Regan, Mtv, la Apple. Ecco, se l'opera letteraria è il manifesto che ogni aspirante visionario dovrebbe leggere, Air è il sunto degli 80s. Nessun altro film potrebbe essere all'altezza nel rappresentare genuinamente un periodo tanto nevralgico. Semplicemente, gli Anni Ottanta si sono esauriti dopo Air - La storia del grande salto. Allora, se la Nike ha dovuto sudare per essere oggi il più grande marchio sportivo (e non solo), Ben Affleck nel suo folgorante e caldo film riprende i fili del discorso lasciato sospeso dalle memorie di Phil Knight, frullando il mito in una VHS consumata fino allo sfinimento. I padroni del mercato, nel 1984 sono Adidas e Converse. Fatturano miliardi e hanno sotto contratto i più grandi players dell'NBA. Appunto, le all-star.
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"There is no finish line"
Ma ciò che non hanno è il cuore. Il cuore che ci metterà Ben Affleck nel film, e il cuore pulsante della granitica sceneggiatura firmata da Alex Convery, diretto sequel del romanzo biografico. E il cuore di Sonny Vaccaro, interpretato da un imbolsito e delicato Matt Damon. Sonny, talent scout con un incarico pesante: risollevare la Nike da un oblio che sembra mordere le caviglie. Così, di notte, scova un nuovo Salvatore. Passo a sinistra, e canestro da tre. Play e rewind, un filmato visto e rivisto su cui indugia il regista. Una fluidità di movimento sovrannaturale, una capacità atletica aliena e ultra-terrena. Siamo lì, testimoni di un passato che torna sotto forma di cinema. Chi è? Appena vent'anni, una matricola, ed era già il GOAT, l'Imperatore incoronato di un Impero iconoclasta, basato sul tripudio fisico e, appunto, su un Capitalismo in grado di acchiappare qualsiasi ceto sociale. Con onestà e precisione, Sonny Vaccaro renderà Michael Jordan (nel film lo vediamo solo di spalle, fugacemente) il primo e fondamentale volto Nike. Non prima di aver scalato la protezione istintiva e materna di mamma Deloris (Viola Davis, stratosferica nei suoi silenzi e nei suoi sguardi) che, come ogni mamma, vuole il meglio per suo figlio. E il meglio non poteva che essere Nike. Anzi, Air Jordan.
"L'ho trovato", dice Sonny Vaccaro, fradicio di pioggia, nel cuore della notte. "Chi Gesù?", gli risponde serafico l'irresistibile Rob Strasser, con il volto di Jason Bateman, "No, costava troppo", controbatte Vaccaro, genio fallibile, in una delle sequenze più belle ed esplosive di Air. In questo concetto, in un lasso di tempo relativamente breve, c'è lo scambio che potrebbe riassumere tanto il film di Affleck quanto il romanzo antropologico di Phil Knight, eccentrico guru che gira scalzo, dallo spirito zen amalgamato in Bruce Springsteen e negli antenati giapponesi, che vegliano il suo ufficio in pregiato mogano. Le immagini di Air e le parole de L'arte della vittoria. Odi spassionate e il concetto di successo, di perseveranza, di passione. Perché, come tracciato da Sonny Vaccaro e da Phil Knight, bisogna sempre guardare avanti, senza smettere di crederci: "There is no finish line", recitava la prima campagna pubblicitaria di Nike, nel 1977. Ovvero, non c'è orizzonte, e non c'è fine al futuro. E no, per favore, non chiamatelo solo marketing.
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