Recensione The Incite Mill: 7 Day Death Game (2010)

Nakata mette in scena un gioco cinematografico che, pur laddove tocca blandamente il tema della società dello spettacolo e dei reality è in realtà una divertita rielaborazione del sempiterno Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, già in passato oggetto di citazioni e variazioni sul tema da parte del cinema di genere.

Agatha Christie sotto l'occhio del Grande Fratello

Allettate da un'offerta di lavoro che promette una cifra stratosferica (1200 dollari l'ora) dieci persone vengono rinchiuse in un edificio nel quale dovranno semplicemente convivere per una settimana. Se nessun evento ha luogo in questo periodo, i dieci incasseranno semplicemente la paga: ma se dovesse verificarsi un crimine, qualcuno dovrà assumere il ruolo di detective e accusatore, e gli altri dovranno decidere a maggioranza se l'imputato è colpevole o no. Ovviamente il crimine, nella fattispecie un omicidio, non tarderà a verificarsi, e presto si creerà nel gruppo un clima di paranoia e sospetto, che porterà i suoi componenti a scontrarsi l'uno con l'altro. Su tutto, l'onnipresente occhio delle telecamere poste nello stabile, incarnazione della misteriosa organizzazione che ha rinchiuso lì i dieci personaggi.

La trama di questo The Incite Mill: 7 Day Death Game, nuovo lavoro di Hideo Nakata, già grande successo in Giappone e ora presentato al Festival di Roma nel focus sul cinema nipponico, riecheggia pellicole occidentali già viste e abbondantemente masticate dal pubblico nostrano, come l'europeo The Experiment o certi esempi di horror futuristico come il cult Cube - Il cubo, che traevano proprio dall'assenza di motivazioni razionali agli eventi la loro forza principale. Nakata mette in scena un gioco cinematografico che, pur laddove tocca blandamente il tema della società dello spettacolo e dei reality (la natura televisiva della reclusione del gruppo è presto rivelata) è in realtà una divertita rielaborazione del sempiterno Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, già in passato oggetto di citazioni e variazioni sul tema da parte del cinema di genere (non vanno dimenticati Reazione a catena di Mario Bava, e anche La cosa di John Carpenter). L'iniziale determinazione alla concordia e alla collaborazione instauratasi nel gruppo viene presto sostituita da una paranoica diffidenza, che farà lievitare il numero dei cadaveri e renderà sempre più ingarbugliata la soluzione dell'enigma.

Nakata, come sempre bravo a gestire la tensione e abile nel restituire il senso di claustrofobia dello stabile, sembra tuttavia privato, e viene da dire definitivamente, della sua peculiarità di sguardo. Il film non è nulla di più di un divertissement ben costruito, ma molto fine a sé stesso, e pur presentandosi come affine ai vari fanta-splatter nipponici post-Tsukamoto (vengono in mente Meatball Machine e Machine Girl) non ha la cattiveria e il cinismo di questi ultimi, rivelandosi invece molto attento e controllato nel non versare troppo sangue, in modo da non perdere appetibilità per il grande pubblico. Il meccanismo del whodunit intrattiene, ma l'inverosimiglianza della situazione di partenza non trova il suo contraltare in una visione abbastanza sopra le righe delle dinamiche instauratesi tra i personaggi; l'abbozzo di riflessione sui media e sull'onnipresente Grande Fratello, riservato a un paio di sequenze e al finale, appare più un pretesto che altro.
Viene un po' di tristezza a pensare che l'autore di questo giochino è lo stesso che ha diretto Ringu e Dark Water, anche alla luce del fatto che il ritorno in terra nipponica non ne ha, evidentemente, rinverdito la creatività. Ma il pubblico a quanto pare ha gradito, ed è superfluo ricordare che, in Giappone come in qualsiasi altro paese, questo è spesso ciò che conta di più.

Movieplayer.it

3.0/5