Abraham l'ammazzavampiri
Un progetto come quello de La leggenda del cacciatore di vampiri suscita inevitabilmente curiosità. L'idea, infatti, di legare una figura chiave della storia americana (anch'essa, tradizionalmente, vista come emblema della lotta - di una certa lotta - contro "le tenebre") a una mitologia classica come quella del vampiro, e di mescolare in modo quasi "scandaloso" questi due motivi, così apparentemente inconciliabili, non può che incuriosire e generare un certo grado di simpatia. C'è certo un precedente importante, che è poi quello da cui tutta l'operazione trae origine: il film di Timur Bekmambetov si ispira infatti a un romanzo (per ora inedito in Italia) scritto dallo stesso Seth Grahame-Smith che avrebbe poi curato personalmente l'adattamento cinematografico. Grahame-Smith, già noto per un'altra irriverente "contaminazione" letteraria (il romanzo Orgoglio e pregiudizio e Zombie, piccolo caso editoriale del 2009) è stato così scelto dal regista e dal co-produttore Tim Burton per scrivere la riduzione per il grande schermo del suo romanzo, con lo scopo di restituirne l'irriverente originalità ma anche la sostanziale (negli ovvi limiti di una storia fantastica) fedeltà storica.
Ciò che tuttavia sorprende maggiormente, e purtroppo non in positivo, di quello che avrebbe altrimenti potuto essere un interessante esempio di b-movie realizzato coi soldi di una major, è proprio l'inconsistenza narrativa. L'estetica, e l'idea di messa in scena, di Bekmambetov ormai la conosciamo, ne conosciamo pregi, peculiarità e limiti: sappiamo che il regista russo non ha la consapevolezza né il gusto di un suo collega dai tratti apparentemente analoghi come Tarsem Singh, sappiamo che la sua idea di contaminazione è molto più cheap e giocosa, e che tutto il suo cinema è molto più teso (ma non è necessariamente un limite) a incontrare i gusti del più classico pubblico da pop-corn movie. Sappiamo però che i suoi film possono funzionare (e hanno funzionato) se sorretti da una sceneggiatura degna di tal nome, che possa dare una consistenza narrativa alla sua messa in scena ipertrofica e al suo ritmo visivo forsennato. Questo non succede, e la cosa è tanto più sorprendente se si pensa che lo script è interamente opera dell'autore del romanzo originale, in questa pellicola; che, fin dalle prime battute, sembra al contrario disinteressarsi di uno sviluppo narrativo coerente, dell'approfondimento dei personaggi, della resa di un contesto storico in cui inserire l'elemento fantastico del vampirismo. Sembra sempre caratterizzata dalla fretta, la narrazione del film di Bekmambetov: fretta di arrivare alla prossima scena d'azione, fretta di esplicare gli snodi narrativi e le motivazioni dei personaggi, quasi fossero un fastidioso "di più". Il ritmo del racconto si adegua al ritmo delle stesse sequenze d'azione, facendo somigliare tutto il film a una corsa a perdifiato sulle montagne russe; ma ciò che manca allo spettatore è il tempo e il modo di appassionarsi alle vicende dei singoli personaggi, a cominciare da quelle dello stesso protagonista (a cui dà il volto un poco convinto Benjamin Walker). La stessa scelta di presentare, nel prologo, un Abraham Lincoln bambino che riceve proprio allora (in un episodio ovviamente inventato) il suo imprinting alla lotta contro la schiavitù, è in questo senso significativa: le peculiarità del protagonista, così come quelle dei suoi comprimari (in primis il cacciatore di vampiri Dominic Cooper e la signora Lincoln, interpretata da Mary Elizabeth Winstead) vanno fissate sullo schermo il prima possibile, in modo che siano chiare e non intralcino, in seguito, il cinetismo dell'azione. Azione che, di suo, non è disprezzabile nella sua messa in scena: molte sequenze (tra cui lo scontro iniziale tra Walker e il suo nemico Marton Csokas tra i cavalli, o la lunga scena sul treno) risultano effettivamente divertenti ed efficaci. E' tuttavia il sovraccarico, l'eccesso, a stancare e a generare infine la noia. Ciò che un po' a sorpresa si salva, di questo La leggenda del cacciatore di vampiri, e che aumenta in un certo senso il rimpianto per la scarsa fattura narrativa del film, è l'uso del 3D. In controtendenza rispetto a molti esempi di blockbuster recenti (vedi l'appena uscito The Amazing Spider-Man) l'uso della stereoscopia sembra essere, in defintiva, la cosa più interessante del film: pur se non lesina, in molte scene, in effett(acc)i dalla vecchia concezione (proiettili, spunzoni e altri oggetti assortiti che escono dallo schermo) Bekmambetov non sembra mai dimenticare di star girando usando la terza dimensione; così, piazza la macchina da presa in modo da esaltare sempre il senso di profondità, ottimamente reso dalla fotografia, delle singole scene, e si avvale inoltre di espedienti visivi (la frequente presenza del pulviscolo) forse gratuiti ma di sicura suggestione. Un'indicazione certo interessante per il futuro, in un film che resta, complessivamente, poco riuscito.
Movieplayer.it
2.0/5