I just want to take another look at you
C'è una frase che, come un refrain, ritorna puntualmente all'interno delle varie versioni di A Star Is Born, riecheggiando da un'epoca all'altra. "Do you mind if I take just one more look?", era la domanda carica d'ammirazione che Norman Maine rivolgeva a una giovane aspirante attrice, Esther Blodgett, nel film capostipite del 1937. "I just want to take another look at you", dichiarava con amore Norman a Esther nel remake musicale del 1954, una frase quasi identica a quella pronunciata dalla rockstar Jackson Maine all'indirizzo di Ally, dopo il loro primo incontro, nel recentissimo remake di È nata una stella: "Just wanted to take another look at you".
La variante più significativa rimane però quella proposta nella pellicola del 1976, in cui era la cantante Esther Hoffman a dedicarla all'amato John Norman Howard ma in forma poetica, tramite i versi del travolgente brano conclusivo: With One More Look at You. Un piccolo esempio delle interconnessioni che legano fra loro quattro film realizzati nell'arco di oltre ottant'anni, ma accomunati dalla volontà di confrontarsi con una storia diventata un vero e proprio archetipo del cinema hollywoodiano: il binomio tra una folgorante scalata al successo e la spirale autodistruttiva di chi, al contrario, vede il successo scivolargli via fra le dita.
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Da A che prezzo Hollywood? ad A Star Is Born: una storia senza tempo
Su questo stesso canovaccio è costruito il film di Bradley Cooper - qui potete leggere la recensione di A Star is Born - appena approdato nelle sale italiane dopo la sua presentazione al Festival di Venezia e l'eccellente debutto negli Stati Uniti (quarantatré milioni di dollari d'incasso nel weekend d'apertura). Esordio alla regia di Cooper, anche in veste di co-produttore, co-sceneggiatore e interprete principale nel ruolo di Jackson Maine, A Star is Born sta attirando un vasto interesse fra il pubblico: merito delle generose recensioni, di una colonna sonora già partita alla conquista delle classifiche e della convincente prova di Lady Gaga, al suo primo ruolo da protagonista sul grande schermo dopo un paio di brevi apparizioni e l'esperienza televisiva di American Horror Story. Una scommessa vinta, insomma, in attesa dell'inevitabile impatto del film sulla prossima awards season, con una seria ipoteca sulle candidature in diverse categorie di rilievo.
Il successo del dramma musicale con Bradley Cooper e Lady Gaga ha confermato l'inossidabile efficacia di una formula che risale agli albori della Hollywood classica: le sue origini, del resto, rimandano addirittura al 1932, l'anno in cui George Cukor dirige A che prezzo Hollywood?, storia d'amore fra un regista alcolizzato e una cameriera che sogna di sfondare come attrice. Interpretato da Constance Bennett e Lowell Sherman, A che prezzo Hollywood? può essere considerato il 'progenitore' del primo È nata una stella, girato appena cinque anni più tardi. Da allora, il paradigma del rapporto tormentato nella cornice del mondo dello show business è stato ripreso più e più volte: si pensi a un caso emblematico quale The Artist di Michel Hazanavicius, del 2011, che nel suo omaggio al cinema del passato recupera in ampia misura il modello di È nata una stella.
E su tale modello vogliamo provare a riflettere, ripercorrendo la storia di questo peculiare franchise: un'opportunità per mettere a confronto le quattro versioni 'ufficiali' arrivate sullo schermo fino ad oggi e soprattutto per analizzarne i rispettivi contesti, per mettere in luce come una storia universale riesca comunque a raccontare qualcosa sul proprio tempo e sull'evoluzione del concetto stesso di celebrità.
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1937 - Alle origini del mito con Janet Gaynor
Proposto dal produttore David O. Selznick a George Cukor (che avrebbe rifiutato proprio a causa dell'estrema somiglianza con il suo A che prezzo Hollywood?), È nata una stella viene sceneggiato e diretto da William A. Wellman nel 1937 come il "fiore all'occhiello" di Selznick, che investe oltre un milione di dollari e punta su un innovativo Technicolor. Janet Gaynor, ex diva del muto, veste i panni di Esther Blodgett, ragazza di campagna del North Dakota che sbarca a Hollywood in cerca di fortuna e, mentre lavora come cameriera ad una festa, riesce a farsi notare da Norman Maine (Fredric March), affascinante attore con problemi di dipendenza dall'alcol, il quale si innamora di lei e la aiuta a ottenere un provino. Ma mentre Esther diventa una star con il nome d'arte di Vicky Lester, Norman vede la propria carriera sprofondare sempre più in basso.
Nel film di Wellman, Hollywood è dipinta come la "fabbrica dei sogni" per antonomasia: il luogo in cui una fanciulla acqua e sapone può rivelarsi quell'"uno su centomila" e vedere coronate le proprie ambizioni. Ma È nata una stella è anche un'opera sulla natura effimera della celebrità, e la drammatica parabola discendente di Norman fa da contraltare a quella di Esther e bilancia gli spunti brillanti offerti alla Gaynor nella prima parte della pellicola (delle quattro versioni, questa è l'unica contenente elementi da commedia). È nata una stella sarà la prima pellicola a colori a ricevere la candidatura all'Oscar come miglior film, una delle sette nomination raccolte, incluse quelle per la regia di Wellman, per il miglior attore a Fredric March e per la miglior attrice a Janet Gaynor; Wellman e Robert Carson vinceranno la statuetta per il miglior soggetto originale (un autentico paradosso, visto il 'debito' nei confronti del film di Cukor).
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1954 - La rinascita di Judy Garland
Poco dopo l'introduzione dei due protagonisti, nel corso di uno spettacolo di beneficenza potenzialmente disastroso, il divo Norman Maine rintraccia la sconosciuta cantante Esther Blodgett in un night club di Sunset Boulevard: la ragazza si sta esibendo nel locale ormai deserto con un piccolo gruppo di musicisti, e quella a cui assistiamo noi - insieme a Norman - è semplicemente una delle scene più iconiche negli annali del genere musicale. In un unico, impressionante piano sequenza, la Esther di Judy Garland si lancia sulle note di un pezzo indimenticabile, The Man That Got Away, regalando una delle performance più intense e struggenti mai prodotte sul grande schermo. L'anno è il 1954 e George Cukor, uno dei maestri della Hollywood classica, recupera il soggetto del proprio film del 1932 per siglare uno dei suoi capolavori.
La principale innovazione del remake di È nata una stella rispetto all'originale consiste nella scelta di narrare la stessa vicenda in maniera molto fedele, ma come un musical. Dopo il rifiuto di Cary Grant è James Mason ad accettare il ruolo di Norman Maine, offrendone un ritratto ancora più intimo e sofferto rispetto a quello di Fredric March; per la parte di Esther Blodgett, invece, il produttore Sidney Luft punta su sua moglie, Judy Garland, da ben quattro anni lontana dal set. Gli echi autobiografici fra È nata una stella e la Garland sono tutt'oggi impressionanti: la diva de Il mago di Oz era stata una delle più formidabili 'creazioni' dello star system di fine anni Trenta, ma quello stesso meccanismo aveva già cominciato a stritolarla. A venticinque anni, dopo un periodo di depressione, abusi di psicofarmaci e un crollo nervoso, Judy Garland aveva tentato il suicidio, e nel 1950 la MGM aveva sciolto il suo contratto, lasciandola senza lavoro.
Per la Garland, ormai più simile al personaggio di Norman che non a quello di Esther, È nata una stella è pertanto l'occasione per far risorgere una carriera in stallo, e lei la sfrutta appieno: la sua interpretazione di Esther Blodgett, impreziosita da alcuni magistrali numeri musicali, resta uno dei più emozionanti one woman show che si siano mai visti (e sentiti) su pellicola. Le riprese procedono fra diverse difficoltà: la Warner Bros decide all'improvviso di adottare il CinemaScope, costringendo Cukor a rigirare numerose sequenze e facendo lievitare il budget a cinque milioni di dollari. L'edizione distribuita nelle sale viene ridotta di quaranta minuti rispetto a quella originale, lunga più di tre ore, ma il risultato vale tutti gli sforzi. È nata una stella non è solo uno dei più complessi affreschi di Hollywood, dei suoi lati oscuri e delle spregiudicate logiche che si annidano dietro all'aspetto glamour: è anche un punto d'arrivo del musical classico hollywoodiano, che per la prima volta abbandona la sua leggerezza quasi fiabesca per essere declinato in chiave di puro melodramma.
Per il resto, il film recupera la struttura narrativa del precedente e ne riproduce le scene più famose: l'intrusione di Norman ubriaco durante la consegna dell'Oscar alla moglie Esther e il suicidio dell'uomo tra i flutti dell'oceano. È nata una stella viene accolto trionfalmente dalla critica e dal pubblico (sarà uno dei dieci maggiori incassi dell'annata al box office americano), si aggiudica due Golden Globe per James Mason e Judy Garland e ottiene sei nomination agli Oscar, fra cui quelle per entrambi i protagonisti. La mancata statuetta alla Garland (al suo posto viene premiata Grace Kelly) rimane fra le più clamorose sviste nella storia dell'Academy; l'attrice, in compenso, in questo film darà vita al suo ruolo più bello, salvo poi ritirarsi dal cinema per altri sette anni.
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1976 - A tempo di rock con Barbra Streisand
Quando, a oltre vent'anni di distanza, Barbra Streisand mette in cantiere la terza versione di È nata una stella, un drastico cambiamento è apportato alla trama: il racconto non è più ambientato a Hollywood, bensì nel mondo della musica. Un modo intelligente non solo per smarcarsi, almeno in parte, dall'impossibile confronto con il classico di George Cukor, ma anche per esprimere umori e atmosfere di metà anni Settanta: John Norman Howard, impersonato dal cantautore Kris Kristofferson (la Streisand aveva provato invano ad ingaggiare Elvis), è la tipica rockstar sregolata che riempie gli stadi, si sostiene a suon di cocaina e annega le proprie giornate nell'alcol, rievocando così gli spettri di idoli maudit quali Jim Morrison e Jimi Hendrix. La regia del film del 1976 viene affidata a Frank Pierson, mentre per 'modernizzare' il soggetto vengono reclutate penne del calibro di Joan Didion e John Gregory Dunne.
E un significativo elemento di modernità risiede nella figura di Esther Hoffman, la quale riflette la nuova consapevolezza delle donne degli anni Settanta, ma pure lo spirito deciso e indipendente della stessa Barbra Streisand: per la prima volta la protagonista non accetta di farsi cambiare il nome né di piegarsi ai compromessi dello show business. Il film si concede inoltre un erotismo abbastanza esplicito, sostituisce la cerimonia degli Oscar con quella dei Grammy Award e cambia le modalità della morte di John Norman Howard. Alla sua uscita la reazione della critica è piuttosto tiepida, ma il pubblico, complice l'enorme popolarità della Streisand, accoglie il film con entusiasmo incondizionato: in America È nata una stella incassa ottanta milioni di dollari (l'equivalente di trecentocinquanta milioni attuali), mentre il disco della colonna sonora domina le classifiche mondiali e vende otto milioni di copie.
Sull'onda del suo successo commerciale, È nata una stella registra un en plein vincendo ben cinque Golden Globe: miglior commedia/musical, miglior attore, miglior attrice, miglior colonna sonora e miglior canzone per la ballata Evergreen. Composta da Barbra Streisand e Paul Williams, Evergreen è uno dei singoli più venduti dell'anno, riceve due Grammy Award e vale alla Streisand e a Williams il premio Oscar per la miglior canzone originale (un'impresa che a breve Lady Gaga potrebbe ripetere con Shallow).
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2018 - A star is born this way
Dopo il tentativo abortito di Clint Eastwood, che avrebbe voluto dirigere un terzo remake con Beyoncé, è Bradley Cooper a portare a compimento questa impresa titanica, scegliendo come riferimento primario la pellicola con la Streisand e Kristofferson: se il suo A Star is Born ha un limite, infatti, è proprio nella prossimità rispetto al film di Pierson, a dispetto degli oltre quarant'anni di distanza. Quello di Cooper, in fondo, è un approccio sostanzialmente classicistico a una formula che funziona a meraviglia fin dagli anni Trenta, riservando una scrupolosa cura per la messa in scena (la fotografia è curata da Matthew Libatique) e arricchendo il personaggio di Jackson Maine. Perché se la star del titolo è indubbiamente Lady Gaga, regina indiscussa della pop music dell'ultimo decennio, per la prima volta la protagonista finisce spesso all'ombra del suo partner maschile.
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Jackson Maine non ha solo maggior spazio rispetto ai suoi predecessori, ma anche un'arma in più: un background esistenziale e familiare ben delineato, che Bradley Cooper approfondisce mediante la figura del fratello maggiore Bobby, ruolo affidato al veterano Sam Elliott. Jackson, pure in virtù dell'ottima prova di Cooper, suscita un senso di umanità e di empatia che mancava invece al rocker "bello e dannato" di Kristofferson. Questo e la sua alchimia con la Ally di Lady Gaga sono le armi vincenti di un film per altri versi piuttosto sopravvalutato, che rinuncia ad 'aggiornare' i temi al cuore del racconto e che, in termini di analisi della contemporaneità, si mantiene ad un livello di superficie: si pensi, di contro, a un film antitetico quale Vox Lux di Brady Corbet, che al di là di un linguaggio più autoriale riesce davvero ad aprire interessanti prospettive sull'epoca presente e sulle attuali implicazioni della celebrità e della cultura pop. A Star is Born ha ambizioni più ridotte, ma centra comunque il bersaglio: tornare ad emozionare il pubblico con il ritratto di un altro "uomo che se ne è andato" e di un nuovo amore "ageless and evergreen".