Nato nel 1946, il Festival di Cannes è diventato fin dalla sua creazione uno degli eventi di maggior importanza per il mondo del cinema: una rassegna di assoluto prestigio, in eterna concorrenza con la Mostra veneziana (benché si debba ammettere che Cannes si sia dimostrata quasi sempre un passo avanti rispetto a Venezia) e che, in quasi sette decenni di storia, ha contribuito a consacrare alcuni fra i massimi maestri del cinema mondiale.
Non stupisce, pertanto, che l'uscita nelle sale del film vincitore della Palma d'Oro, il premio più ambito del Festival di Cannes, sia attesa puntualmente con grande curiosità da parte di tutti gli amanti del cinema; o quantomeno questo è quanto ci si aspetterebbe, benché talvolta sia piuttosto triste, per noi cinefili, constatare come neppure una Palma d'Oro sia in grado di intercettare gli interessi di una fetta più ampia di pubblico, al di là dello "zoccolo duro" dei super-appassionati della Settima Arte (la stessa considerazione può essere applicata allo stesso modo, e risulterebbe anzi perfino più valida, per il Festival di Venezia, ma questo è un altro discorso).
Il regno d'inverno
E da questa settimana, alla prova del botteghino in Italia si sottoporrà la pellicola eletta miglior film al Festival di Cannes 2014: Il regno d'inverno - Winter Sleep, la nuova opera del regista turco Nuri Bilge Ceylan, che a Cannes aveva già registrato diversi successi (due Gran Premi della Giuria, nel 2003 per Uzak e nel 2011 per C'era una volta in Anatolia, e il premio per la miglior regia nel 2008 per Le tre scimmie) e che lo scorso maggio si è imposto sul "secondo classificato", ovvero l'italiano Le meraviglie di Alice Rohrwacher, e sugli applauditissimi Leviathan di Andrei Zvyagintsev e Mommy di Xavier Dolan (ma Winter Sleep, Leviathan e Mommy potrebbero ritrovarsi in competizione ai prossimi Oscar, dove rappresenteranno rispettivamente Turchia, Russia e Canada nella sfida per il miglior film straniero).
Opera caratterizzata dall'inappuntabile rigore della messa in scena e dalla sottile tensione espressa attraverso i confronti fra i personaggi, Winter Sleep, distribuito in Italia da Parthènos e Lucky Red, non ha certo le carte in regola per trasformarsi in un campione d'incassi: a partire dalla durata impegnativa (ben 196 minuti), passando per una narrazione ridotta all'osso e basata quasi prevalentemente sui dialoghi. La speranza è che, pur senza attirare folle oceaniche, Winter Sleep possa comunque contribuire a tenere desta l'attenzione per quel cinema più sofisticato e rarefatto, marcatamente autoriale e magari appartenente a realtà culturali lontane dalla nostra, che troppo spesso non trova lo spazio adeguato nei circuiti cinematografici; nemmeno dopo la "benedizione" di un festival. L'uscita di Winter Sleep ci offre però lo spunto per riflettere sul ruolo e l'influenza che una manifestazione come il Festival di Cannes detiene al giorno d'oggi, e in che modo l'assegnazione di una Palma d'Oro possa contribuire a trasformare un film in un classico o, viceversa, a testimoniare lo "stato di salute" e le nuove direzioni della cinematografia mondiale (riferendoci ovviamente a quella più coraggiosa e sperimentale). Di seguito abbiamo deciso dunque di prendere in esame 25 anni di Palme d'Oro, dal 1989 al 2013, per provare ad analizzare le tendenze nelle scelte delle giurie del Festival e l'eredità che tali pellicole hanno acquisito e consegnato ai cinefili di ieri, di oggi e di domani: di seguito la prima parte del nostro approfondimento...
1989-1991: la riscossa degli USA e la rinascita del cinema indipendente
Il nostro punto di partenza, l'edizione del 1989, oltre al valore simbolico dei "cinque lustri" presenta anche un peculiare motivo d'interesse: si tratta del primo di tre Festival consecutivi in cui, a conquistare la Palma d'Oro, è stato un film di produzione statunitense. Nel 1989, infatti, ad essere eletto miglior film a Cannes è Sesso, bugie e videotape, folgorante opera d'esordio del 26enne Steven Soderbergh (ad oggi, il più giovane regista ad aver vinto la Palma d'Oro), che vede premiato anche il protagonista James Spader. Sesso, bugie e videotape non soltanto si è rivelato, a sorpresa, un clamoroso successo commerciale, forse proprio in virtù del suo smaliziato approccio al tema delle abitudini sessuali degli americani, ma ha contribuito in misura essenziale alla rinascita di un cinema indipendente che, nel corso degli anni Novanta, sarebbe cresciuto in maniera esponenziale accanto ai titoli dei grandi studios hollywoodiani.
Allo stesso filone di cinema indipendente appartengono le due pellicole premiate nel 1990 e nel 1991. Nel 1990, proprio sull'onda del fenomeno planetario di Twin Peaks (del quale è appena stato annunciato il ritorno sul piccolo schermo), la Palma d'Oro viene attribuita a uno dei cineasti più originali e visionari d'America, David Lynch, per il suo Cuore selvaggio, bizzarro e allucinato racconto on the road, nonché un grottesco rovesciamento de Il mago di Oz (in pratica, una totale sovversione dei tradizionali codici hollywoodiani). Dopo Soderbergh e Lynch, che il Festival di Cannes ha contribuito a consacrare fra i grandi nomi del cinema a cavallo fra gli Ottanta e i Novanta, nel 1991 Cannes incorona i fratelli Ethan e Joel Coen, anche loro alfieri di un cinema di rottura rispetto alle convenzioni del passato, con Barton Fink - È successo a Hollywood, satira al vetriolo sulla "fabbrica dei sogni" di Hollywood (e la Palma d'Oro è stata accompagnata da una valanga di trofei: il premio per la regia ai fratelli Coen e il premio come miglior attore per John Turturro).
1992-1994: un Festival mondiale, fra Europa, Asia e Oceania, e il fenomeno Pulp Fiction
Dopo la tripletta americana, che tuttavia non esaurisce di certo l'appeal del cinema indie statunitense sulle giurie di Cannes (e infatti nel 1992 un'altra feroce satira anti-hollywoodiana, I protagonisti di Robert Altman, viene premiata per la regia e per l'attore Tim Robbins), il Festival dimostra anche una capacità di abbracciare le cinematografie più distanti e differenziate, tanto a livello stilistico quanto a livello geografico. Nel 1992, appena quattro anni dopo la Palma d'Oro per Pelle alla conquista del mondo, il danese Bille August si aggiudica una seconda Palma grazie a Con le migliori intenzioni, omaggio alle radici familiari del maestro Ingmar Bergman (su una sceneggiatura dello stesso Bergman) che vale inoltre il premio come miglior attrice a Pernilla August, moglie del regista. Il 1993 è invece l'anno della consacrazione di due cineasti ancora poco noti al pubblico occidentale, ma premiati ex aequo per due tra i film più acclamati nella storia del Festival. Il primo è Addio mia concubina di Chen Kaige, sontuoso e appassionante melodramma che ripercorre mezzo secolo di storia della Cina attraverso le vicende e le passioni di una coppia di attori dell'Opera di Pechino e della donna che si intromette fra loro (interpretata dalla diva Gong Li); vincitore della Palma d'Oro e campione d'incassi in patria, Addio mia concubina segna un capitolo fondamentale nella diffusione del cinema orientale su un mercato internazionale (un fenomeno iniziato, pochi anni prima, grazie alle pellicole di Zhang Yimou).
L'altra pellicola premiata con la Palma d'Oro al Festival del 1993 è Lezioni di piano, che rivela al mondo il talento della regista e sceneggiatrice neozelandese Jane Campion, grazie a una storia d'amore ambientata intorno alla metà dell'Ottocento e caratterizzata da un disperato romanticismo. Il film, che incanta critica e pubblico in virtù del proprio lirismo e del pathos melodrammatico, otterrà un clamoroso successo e vincerà tre Oscar, incluso il premio per la protagonista Holly Hunter, già incoronata miglior attrice dalla giuria di Cannes. Ma se Lezioni di piano riporta un eccezionale responso, il maggiore film cult fra tutte le Palme d'Oro dell'ultimo quarto di secolo resta senz'altro Pulp Fiction: al Festival del 1994, infatti, la giuria si inginocchia di fronte ai virtuosismi narrativi di un giovane e semi-esordiente Quentin Tarantino, nuovo alfiere di un postmodernismo cinematografico destinato a fare scuola. Vero e proprio film-evento di fine millennio, Pulp Fiction farà conquistare al suo autore anche un Oscar per la miglior sceneggiatura originale.
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1995-1998: la riscoperta dell'autorialità, da Kusturica ad Angelopoulos
Se Lezioni di piano e Pulp Fiction si rivelano due cult-movie in grado di registrare incassi record e di segnare l'immaginario collettivo, anche al di fuori dei circoli cinefili, nelle ultime cinque edizioni del millennio (ma in realtà anche successivamente) il Festival di Cannes sembra recuperare quella predilezione per un'autorialità spiccatamente legata ad un contesto europeo, mostrando di prediligere l'attenzione - e la difesa - verso un cinema forse più sofisticato e raffinato, ma che a maggior ragione può beneficiare della "canonizzazione" derivante da una Palma d'Oro. E nell'edizione del 1995 Cannes non può che incoronare Underground, straordinario affresco, grottesco e barocco, comico e tragico, di cinquant'anni di storia della (ex) Jugoslavia, visti e vissuti dal "sottosuolo"; il film, diretto da Emir Kusturica, viene presentato a Cannes sotto la bandiera della Comunità Europea, e vale al regista serbo la sua seconda Palma d'Oro dopo quella ottenuta nel 1985 per Papà è in viaggio d'affari. Dopo Kusturica, il Festival di Cannes 1996 suggella il talento di un altro autore di punta del cinema europeo: l'inglese Mike Leigh, raffinatissimo ed acuto osservatore della società britannica e della vita delle classi operaie e della medio-bassa borghesia, dipinta con uno sguardo lucidissimo e di ammirevole profondità. Opera paradigmatica del cinema di Leigh è, per l'appunto, Segreti e bugie, che fa conquistare il trofeo come miglior attrice anche a un'intensa Brenda Blethyn e otterrà un sorprendente successo pure oltreoceano, coronato da cinque nomination all'Oscar.
L'edizione del 1997 registra invece un altro ex aequo (ad oggi, l'ultimo nella storia del Festival) fra due titoli ben lontani, per provenienza e per stile, rispetto ai vincitori degli anni precedenti: Il sapore della ciliegia di Abbas Kiarostami, amaro ritratto dell'Iran contemporanea mediante la parabola di un uomo intenzionato a suicidarsi; e L'anguilla, seconda Palma d'Oro per il celebrato regista giapponese Shohei Imamura dopo La ballata di Narayama del 1983, incentrato sulla vicenda di un uomo condannato a otto anni di prigione per l'omicidio della moglie. Nel 1998 la Palma d'Oro ritorna invece in Europa grazie alla vittoria de L'eternità e un giorno, riflessione interiore dell'anziano poeta Alexandros (Bruno Ganz) sospesa fra allegoria e memoria, fra scavo psicologico e divagazione malinconica: il modello di un cinema estremamente complesso ed elaborato come quello del regista greco Theodoros Angelopoulos, che tre anni prima aveva ricevuto il Gran Premio della Giuria con Lo sguardo di Ulisse, e per il quale la Palma d'Oro ha rappresentato il coronamento di un percorso artistico già canonizzato dai principali festival internazionali.
Leggi la seconda parte:
25 anni di Palme d'oro: dai fratelli Dardenne a Nuri Bilge Ceylan