Ghost in the Shell non convince il pubblico in nessuna parte del mondo, a partire dagli USA: il film di Rupert Sanders con Scarlett Johansson e Michael Pitt ha racimolato solo 18.6 milioni di dollari nel primo weekend in patria, e le stime del guadagno finale sono misere.
Una proiezione degli incassi mondiali infatti dichiara che la cifra totale si aggirerà sui 200 milioni (di cui solo 50 negli USA), quando la produzione ne è costata circa 250. Secondo alcune fonti i costi di realizzazione sarebbero anche maggiori, e la perdita finale arriverebbe dunque a 100 milioni di dollari.
Il manga di Masamune Shirow molto probabilmente non sarà, perciò, trasposto in una serie di film, come inizialmente auspicato dalla Paramount, che aveva ottenuto finanziamenti anche da due case di produzione asiatiche (Shanghai Film Group e Huahua Media) e si era unita per l'occasione alla Dreamworks. Un fallimento che ha travolto dunque molte firme, ma senza dubbio il peso maggiore grava sulla Paramount.
L'analisi delle ragioni dietro un'operazione commerciale così fallace riportata da Deadline segna i fattori scatenanti nei costi esorbitanti di un film che non aveva molto pubblico in partenza ("è il genere di soldi che si spende per un sequel, non per un titolo conosciuto da pochi fanboy affezionati" avrebbe commentato una fonte) e nell'aver dovuto posticipare le riprese in attesa di Scarlett Johansson, che si era impegnata ad interpretare la cyborg protagonista già nel gennaio 2015, ma non è stata libera di prendere parte alle riprese prima di novembre dello stesso anno.
L'attrice avrebbe anche tentato di tirarsi fuori a causa di impegni confliggenti, ma gli studios hanno preferito attendere, con conseguente aumento dei costi.
Inoltre, pare che mancasse un produttore esecutivo capace di controllare ogni fase della realizzazione del film, e nella confusione regnante negli studios a causa di alcune cause legali in cui era invischiata, nessuno ha preso il comando per cercare di terminare la lavorazione in minor tempo: il film era completo solo due settimane della distribuzione nei cinema.
Ancora, la strategia di marketing: gli spot pubblicitari sono stati percepiti come un involucro estetico senza sostanza, che la storia è stata venduta più come vendetta dai toni dark che la vicenda di un eroe e che non è stato fatto abbastanza mettere a tacere la polemica del "whitewashing" (la scelta di impiegare attori bianchi in tutti i ruoli chiave di un film che nasce da una cultura ben poco americana). Grossolano passo falso, anzi, il lancio dell'hashtag #IAmMajor, col quale gli spettatori potevano condividere un'immagine di ciò che li rende unici, che è subito diventato un meme e strumento di protesta, ma senza raggiungere dimensioni davvero preoccupanti.
Analizzata anche la scelta della Johansson come probabile errore: la star che doveva trascinare al cinema i suoi ammiratori del mondo Marvel non è riconosciuta come mora (pare che lo stesso problema ci fu con Emilia Clarke in Terminator: Genisys) e sarebbe stato meglio puntare su un'attrice asiatica, contornata da co-protagoniti molto famosi che traghettassero i propri fan alla scoperta di questo "nuovo" film... ma in realtà a dare il colpo di grazia sono state le recensioni, quasi unanimi nel distruggere il film in ogni parte del mondo, cui stanno facendo eco anche le opinioni del pubblico: niente passaparola come ultima ancora di salvezza.