Emmanuel Carrère è tornato al romanzo con Yoga, edito da Adelphi. Nel corso di un'intervista per Il Corriere della Sera, lo scrittore e regista ha parlato del libro, della sua depressione curata con l'elettroshock e ha ammesso di aver anche pensato al suicidio.
Nel suo ultimo romanzo, Yoga, Emmanuel Carrère ha raccontato la sua depressione fino al reset dell'elettroshock, che lo psichiatra gli ha consigliato per curare il disturbo bipolare che rischiava di condurlo al suicidio. Durante la cura, lo scrittore ebbe una crisi e chiese pure l'eutanasia. A questo proposito, Carrère ha raccontato: "Pensavo al suicidio in alcuni momenti molto difficili, come credo succeda a tanti. Ma non penso di essere il tipo che si toglierebbe la vita. È una questione di curiosità: sono curioso di sapere cosa ci sia in serbo per me dopo, voglio conoscere il finale, tutta la storia, il capitolo successivo. Ci sono volte in cui mi piacerebbe conoscere il finale del libro che sto scrivendo, perché è importantissimo sapere come finirà un libro, con quale sensazione lascerai il lettore".
Yoga non è un romanzo, è una terapia sotto forma di scrittura mista dell'autore, il tentativo di liberarsi di un'identità depressa, iper-narcisistica e al limite del suicidio che si apre con il racconto di un ritiro di meditazione interrotto dall'attentato a Charlie Hebdo, dove perde la vita un caro amico di Carrère. In un certo senso, questa nuova uscita sembra quasi il tentativo di liberarsi della vita passata, una sorta di suicidio simbolico.
Yoga è anche una ricerca di equilibrio tra la luce e le tenebre. Nel libro, Carrère ha scritto: "Penso ci sia un grado di verità maggiore in Dostoevskij che nel Dalai Lama". A questo proposito, lo scrittore ha raccontato: "Mi riferisco non tanto al Dalai Lama ma ai libri che in suo nome parlano di serenità spirituale senza scavare. L'aspirazione verso la luce ha senso se si va anche un po' dentro le tenebre, nelle pieghe oscure della vita, nelle miserie. Provo a correggere la mia frase: non intendo dire che Dostoevskij sia meglio del Dalai Lama, ma se ascolto il Dalai Lama ho bisogno di avere dietro di me Dostoevskij. Se mi affidassi solo alla saggezza di una guida spirituale, cadrei nella parte più oscura di me".
Infine, per Emmanuel Carrère, la scrittura è anche un modo per sottrarre all'oblio momenti che vale la pena salvare: "Quando in Vite che non sono la mia racconto di mia cognata morta, che attende di essere tumulata, in una sorta di obitorio, entra un tizio per la cura della salma: era estate e faceva caldo, il deterioramento è rapido. Beh, era un tizio grottesco, effeminato, sembrava la tipica caricatura del parrucchiere gay in certe vecchie commedie. Noi lo abbiamo preso in giro, senza cattiveria, per sdrammatizzare quella giornata. Poi ho saputo che non era un dipendente della struttura, ma un volontario. All'inizio pensi che sia una cosa un po' macabra, ma poi metti a fuoco che questo tizio, di domenica, viene a dare sollievo a una famiglia sconosciuta. C'era qualcosa di magnifico e ho cercato di raccontarlo, per tenere traccia di questa gentilezza o umanità allo stato puro. Mi piacciono queste piccolissime epifanie di bontà. Il male è molto misterioso, ma anche la bontà e misteriosa".