DogMan racconta una storia che appassiona ed emoziona per come tratta il tema del dolore, anche grazie all'ottima prova di Caleb Landry Jones con cui il regista Luc Besson si è detto felice di aver potuto lavorare, ma non è stato un film semplice da girare. Il motivo? I cani, di cui il protagonista Douglas si circonda, presenti in gran numero sul set con relativi addestratori a cui ogni attore a quattro zampe rispondeva. Ce ne ha parlato lo stesso Besson in un'intervista nei giorni precedenti all'uscita in sala, dal 12 Ottobre con Lucky Red.
Adattarsi alle situazioni
Un set complesso, quindi, caotico, ma ricco di soddisfazioni, come traspare dalle parole di Luc Besson riguardo il risultato finale: "Sembra facile quando guardi il film ed è un bene, vuol dire che abbiamo fatto un buon lavoro." Sembra facile, quindi, a posteriori, ma per spiegarci il lavoro fatto il regista di Leon è dovuto ricorrere a una metafora marina: "Anche se sei un buon marinaio, il mare è sempre un mistero e non sai mai quello che ti aspetta. Ed è lo stesso con oltre cento cani al lavoro, non sai mai se otterrai quello che vorresti: ti alzi la mattina e non sai come sarà, devi solo imparare ad affrontarlo e organizzare le situazioni in modo da avere piccoli miracoli." E ce ne sono di miracoli, anche non tanto piccoli, in DogMan per come i cani si sono rivelati grandi attori.
"Ho provato a prepararmi a lungo," ha spiegato ancora Besson, "ma alla fine non si può chiedere a un cane di fare qualcosa di specifico. È difficile." Un lavoro preparatorio fatto sia in fase di scrittura che sul campo. "Ogni giorno io e Caleb incontravamo il branco di un'ottantina di cani e passavamo quasi un'ora insieme. Alcuni erano più affettuosi di altri, alcuni andavano più da Caleb, altri più da me, e abbiamo cercato di guidare queste tendenze. Abbiamo cercato di capire quali fossero più in sintonia con Caleb, quali avessero un miglior rapporto tra loro."
Dogman: perché è il miglior film di Luc Besson dai tempi di Léon
Tra scrittura e lavoro sul campo
"È un po' come quando inviti 20 persone a cena. Come decidi come farli sedere?" È questo il parallelo che ha individuato il regista di DogMan per spiegarci in che modo ha lavorato con i cani. "Inizi a ragionare su chi va d'accordo con chi, quali parlano la stessa lingua e possono comunicare, e così via. Più o meno ho organizzato le riprese in questo modo: Ho cercato di conoscere tutti i cani." Conoscerli per dar loro il ruolo più adatto a ognuno, ma anche adattare quanto scritto per integrare le tendenze dei singoli nelle sequenze da girare: "Alcuni volevano giocare, altri non volevano. Il piccolo Mickey per esempio voleva sempre mangiare. In tutte le sue scene, lui mangia. Questa è la caratteristica che ho visto in lui e l'ho inserita nello script."
Se quella del piccolo Mickey è una peculiarità innocua e simpatica, non è stato così per tutti: "penso per esempio al grande lupo irlandese: è il cane di mia madre, è molto dolce, ma gli altri cani erano spaventati e non volevano girare con lui. Lo vedevano arrivare e scappavano." Come risolvere, quindi? "Abbiamo fatto qualche telefonata e abbiamo trovato tutti i fratelli e sorelle di quello di mia madre, in modo che già si conoscessero. Quando erano tutti e 8 o 9 sul set, erano tutti spaventati, anche se erano i più dolci di tutti." E la loro dolcezza è stata un piccolo problema pratico, perché non apparivano abbastanza spaventosi. "Li ho dovuti rendere più cattivi rallentando la camera, non andando a 24 fotogrammi al secondo ma 25 o 26, per dargli un po' di peso, altrimenti sarebbero apparsi troppo gentili e non avrebbero fatto paura." Insomma un lavoro fatto su ogni singolo cane per ottenere l'effetto di avere tanti individui distinti e non un unico branco senza individualità evidenti, come capita in tanti film che hanno protagonisti a quattro zampe. "È stato un lungo processo" ha concluso, "ma ho cercato di usarli come veri personaggi più che potevo. Ed è stato molto divertente farlo. "