Chi era Antonio Ligabue, il pittore che Elio Germano ha interpretato in modo convincente nel film Volevo nascondermi? È stato uno degli artisti sicuramente più inafferrabili del Novecento italiano, che il film di Giorgio Diritti - di cui abbiamo parlato nella nostra recensione di Volevo nascondermi - ha messo nuovamente sotto i riflettori, raccontandone la tormentata esistenza e le opere.
Considerato come il capofila dell'arte naif nel nostro Paese, Ligabue fu in realtà ben più di questo; anzi se proprio dobbiamo trovare un suo tratto peculiare è proprio quello di essere sempre stato scevro da ogni schematismo prestabilito. Nelle sue opere si rispecchia, infatti, una vita spezzata e marchiata sin dal primo vagito, a cui seguirà una solitudine sconquassata da una mente instabile che solo grazie alla pittura trovava una quiete momentanea. In quelle pennellate, fatte con un vigore spesso insostenibile, Antonio Ligabue urla il suo dolore al mondo intero, schizzando di toni vividi la sua angoscia più oscura.
Antonio Ligabue nasce nel 1899 a Zurigo da una donna single di Belluno che, a nemmeno un anno di età, lo affida ad una coppia di svizzeri tedeschi. Appena nato si porta dietro il marchio di essere figlio di nessuno, con un cognome di comodo datogli dall'uomo che sposerà sua madre, Laccabue, che poi da adulto rinnegherà cambiandolo in Ligabue. Una cesura netta, voluta, che è quasi una protesta per il suo essere venuto al mondo, ma anche un risentimento d'odio per un uomo che considera violento e arrogante. Ma pure la nuova famiglia in cui è stato praticamente abbandonato non naviga certo nell'oro, anzi, vive nella miseria più nera tanto da causargli una forma di rachitismo per malnutrizione che gli segnerà le carni e le ossa per sempre, plasmandogli un aspetto sproporzionato, diseguale, tale da renderlo di fronte agli occhi della gente come una sorta di 'mostro'. Anche la testa va per conto suo, aprendogli le porte dei manicomi, dai quali entra ed esce in continuazione. La fuga in Italia, dopo l'ennesimo internamento, lo conduce in Emilia tra gli stenti di una vita errabonda e l'incontro consolatore con la pittura. Perché è grazie a lei che scopre come domare i demoni interiori che lo attanagliano.
Volevo nascondermi, parla Elio Germano: "Da Ligabue ho imparato una grande lezione di umanità"
Gli amici di Antonio Ligabue si contano sulle dita di una mano; uno è il pittore e scultore Renato Marino Mazzacurati, il quale si renderà subito conto della sua genialità e lo aiuterà a migliorare la sua arte; l'altro è lo scultore Andrea Mozzali, che per un periodo, a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, lo ospiterà a casa sua. Sono brevi parentesi di pace, intervallate da fiammate di crisi, spesso tanto brutali da portarlo a gesti di autolesionismo con conseguenti ritorni in clinica.
La critica si accorge di Ligabue nell'immediato dopoguerra, tanto che negli anni Cinquanta, insieme ad una impennata della attività pittorica, arrivano anche le prime mostre personali e collettive. Celebre rimane tutt'ora l'articolo del 1957 che Severo Boschi gli dedicò sul Il Resto del Carlino con le foto di Aldo Ferreri, a cui seguì, quattro anni dopo, la consacrazione vera e propria alla Galleria La Barcaccia di Roma con una antologica delle sue opere. Morirà appena un anno dopo nel 1962 nel ricovero dei mendici Carri di Gualtieri che, salvo alcuni periodi, è sempre stato il suo piccolo rifugio dalle angherie del mondo.
Le opere di Ligabue, insieme a qualche scultura, rimangono tutt'ora come finestre dal quale carpire la fragilità di quest'uomo che, stando fermo lungo la valle del Po, si immerge in esotici scenari lussureggianti su cui si muovono bestie leste e fameliche. A volte stanno in quiete, spesso sono cristallizzate in un lampo di colori prima di un attacco, di una caccia o di un morso letale. Domina l'inquietudine in cui ad emergere è l'eterna lotta per la sopravvivenza e il conflitto perenne che ad un certo punto trova sfogo anche in una serie di autoritratti. Ne sono rimasti oltre trecento, come a segnare una ricerca compulsiva di se stesso attraverso il disegno, in un tentativo ultimo di placare il suo animo. Ma è come inseguire una chimera, una ossessione continua, così come lo è la ripetizione spasmodica di "Dam un bès", cioè "Dammi un bacio" che chiedeva a tutte le persone che incrociava durante il suo vagabondare nei campi. Una frase che è in fondo il grido di un essere impaurito che cerca un gesto d'amore mai avuto e un'infanzia perduta per sempre.
Nel 1977 Flavio Bucci, recentemente scomparso, lo ha impersonato in uno sceneggiato Rai di grande successo, dal titolo Ligabue, per la regia di Salvatore Nocita, facendolo conoscere anche al grande pubblico. Pubblico che ora potrà nuovamente riscoprirlo grazie a Elio Germano in Volevo nascondermi di Giorgio Diritti.