Ha girato capolavori come The Tree of life di Terrence Malick, cult come Seven e Fight Club, kolossal tipo Troy. Eppure ammette di non averne rivisto nemmeno uno. Brad Pitt si confessa in una intervista praticamente a tutto tondo su Vanity Fair, facendo un po' il punto sulla propria situazione professionale, mentre rimangono rigorosamente tabù i suoi lati più personali quali il divorzio da Angelina Jolie e la questione legale sull'affidamento dei figli. Non che gli argomenti non manchino. Uno su tutti è quell'oggetto misterioso che ha il nome di Once Upon a Time in Hollywood, ultimo film di Quentin Tarantino in cui recita in coppia con Leonardo DiCaprio più un cast all stars da far tremare il botteghino: Margot Robbie, Al Pacino, Damien Lewis, Bruce Dern e Dakota Fanning.
In Once Upon a Time in Hollywood, Brad Pitt interpreta lo stuntman di Leonardo DiCaprio, un attore di western sul viale del tramonto che medita di trasferirsi in Italia; sullo sfondo si muove la varia umanità di starlette e attoruccoli in cerca di un posto al sole dei riflettori, ma anche l'ombra oscura degli omicidi della Manson family e della morte violenta di Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski, a cui presta il volto Margot Robbie. Difficile però saperne di più, perché Pitt preferisce parlare molto più in generale del suo rapporto con Quentin Tarantino, con il quale aveva già collaborato in Bastardi senza gloria: "Lui con Le iene, io non ricordo bene con quale film, forse era il momento di Vento di passioni. Ma lo stimavo già da prima. Avevo partecipato, in un piccolo ruolo, a Una vita al massimo, un film di Tony Scott, tratto da uno spec script di Quentin. Gli spec script sono delle specie di sceneggiature di prova che i giovani scrittori sottopongono ad agenti e studios per dimostrare di essere capaci di fare qualcosa. La cosa incredibile di Quentin è che già allora si capiva che la sua è una voce unica. Infatti, oggi, nel linguaggio degli addetti ai lavori, basta dire un film di Tarantino o anche un film à la Tarantino per capire di che cosa si tratta".
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Ma non c'è solo il lavoro d'attore; l'Oscar in bacheca vinto come produttore di 12 anni schiavo con la sua Plan B è l'altra faccia della medaglia. La sua filosofia è semplice: "Sosteniamo i registi che ci piacciono, le storie che ci piacciono e amiamo la sfida, anche economica, di buttarci in progetti pure quando sono difficili da realizzare, anzi soprattutto quando lo sono! Facciamo i film che noi andremmo a vedere senza illuderci di essere in grado di pronosticare a quante altre persone piaceranno". Fino ad ora i rischi hanno pagato molto bene, non solo per i tanti premi al film antischiavismo di Steve McQueen, ma anche quelli per Moonlight e The Departed - Il bene e il male di cui è stato produttore esecutivo. Anche se ammette di aver visto solo una volta i propri lavori in cui ha recitato: "Non rivedo mai i miei film. Per esempio, Vento di passioni che nominavamo prima non l'ho mai più visto dopo che è uscito. Mi ricordo che fu una lavorazione dura e impegnativa ma se mi chiede una battuta del personaggio che ho interpretato, zero. Ogni volta che inizio un film mi ci immergo completamente. Mentre lo preparo e lo giro, studio a fondo tutto quello che c'è da sapere e ci sto dentro per tre o magari anche sei mesi. Ma, una volta finito, è come se lo cancellassi, per scriverci sopra il progetto successivo. Ogni tanto qualcuno mi cita una scena o una battuta aspettandosi una mia reazione ma raramente so che cosa dire".
Una cosa però è sicura, la sua reazione di fronte alle nomination ai Golden Globes 2019 deve essere stata sicuramente positiva, visto che tre film da lui prodotti: Se la strada potesse parlare, Vice - L'uomo nell'ombra, il film su Dick Cheney con Christian Bale, e Beautiful Boy con Timothée Chalamet hanno fatto il pieno di candidature, dando il via all'assalto degli Oscar per l'anno prossimo.