Una regia mai invasiva, che porta al centro dell'attenzione un incrocio di storie. Storie dolenti, incrinate, sperdute, ma che pullulano di vita e di verità. Sopratutto, riflettono una dimensione umana, che non rinuncia - nonostante tutto - alla ricerca di una specie di felicità. Dietro Zona protetta c'è l'impegno profuso di un gruppo di registi molto giovani, supportati dalla produzione di Andrea Porporati, Daniele Vicari e Francesca Zanza. Dieci episodi da venticinque minuti (disponibili su RaiPlay, e dal 7 luglio in terza serata su Rai3) per raccontare le storie di dodici ragazzi e ragazze che hanno affrontato l'adolescenza (perché l'adolescenza si affronta, non si trascorre) in una comunità per minori. Riflessioni, pensieri, flussi di coscienza, riassunti e messi in fila dai registi provenienti dalla Scuola Gian Maria Volonté, Giulia Cacchioni, Chiara Campara, Giulia Lapenna, Giansalvo Pinocchio e Pietro Porporati.
E sì, i ragazzi e le ragazze di Zona protetta li vogliamo citare tutti, dal primo all'ultimi: Vanessa Jovanovic, Blessing Ekomwenretten, Mahmoud Abdelsamad, Khansaa Gomri, Nicoletta Manzitto, Andrea Utica, Maria Sole Perito, Marta Sebastiani, Sharon Sebastiani, Diana Orasanu, Maria Pia Calculli, Youssef Al Mourchid. Li citiamo perché ognuno di loro ha una propria unicità, una voce ben definita, colti dallo sguardo dei loro coetanei, trasportando la realtà al centro di una verità scenica. E dello storytelling dietro Zona protetta ne abbiamo parlato al telefono con Giulia Cacchioni, che ha diretto gli episodi con Sharon, Marta e Maria Sole.
Zona protetta, una regia invisibile e mai invasiva
Con la regista, che su RaiPlay ha già firmato il film corale Ultimo piano, siamo partiti dall'invisibilità della messa in scena, mai pressante ed anzi schiva rispetto ai ragazzi protagonisti. "Questo non era il contesto per essere ingombranti dal punto di vista stilistico. Volevamo raccontare un percorso importante di storie di persone sconosciute. Le case famiglia sono ambienti chiusi, e quindi anche solo per capire le dinamiche all'interno dovevamo spalmarci sulla parete, e osservare. Abbiamo lavorato per circa un anno, entrando in sintonia con loro, e per capire come funziona una comunità. Siamo stati seguiti da Tito Baldini, oltre a Vicari e Porporati che hanno prodotto la serie", e prosegue, "A me infastidisce quando l'autore prevale sull'argomento, e in questo caso specifico sarebbe stato un autogol. Molto è stato costruito con i ragazzi in scena".
Sul lavoro in Zona protetta, la riflessione di Giulia Cacchioni si lega al concetto di comunità: "Le case famiglia nell'immaginario collettivo sono luoghi astratti, esistono nella società ma sono separati, nascosti alla vista; il lavoro che abbiamo fatto è stato guardarli da vicino per riportarli alla loro umanità, ricordandoci che sono luoghi reali abitati da persone reali".
L'adolescenza come punto di partenza
Dodici storie, legate dall'adolescenza e da un terreno comune suggerito dal potere del cinema. "I protagonisti sono legati da alcuni elementi comuni, e sono persone che si trovano in un momento della crescita peculiare", spiega la regista. "A prescindere dalla vita, come individuo durante l'adolescenza fai conti della tua vita fino a quel momento, e decidi in che direzione proseguire. Questo è il terreno di fondo. Poi, ci sono vicende di rabbia, di frustrazione, insofferenza. Sentimenti negativi e positivi. Non volevamo fare un racconto edulcorato, sarebbe stato disonesto da parte nostra. Tutte queste cose si intrecciano tra di loro, ma senza essere esplicate".
Dentro e fuori la casa famiglia
Forte il concetto di dentro e fuori, che esce dalla narrazione di Zona protetta. "Sono due aspetti speculari, ma è importante capire che questi ragazzi si sono sempre confrontati con il dentro e con il fuori. Hanno un livello molto alto di consapevolezza, dialogano da sempre con gli assistenti sociali. Hanno la capacità di raccontarsi, di capirsi. E abbinarsi ad uno spazio chiuso, con la prospettiva di uscire. E ciò, crea un dialogo particolare tra il dentro e il fuori. Il focus della serie è la preparazione ad uscire dalla comunità. Ho diretto gli episodi con Maria Sole, Sharon e Marta, che sono più grandi, e sono già uscite dalla comunità. Il racconto è stato spostato in avanti e ci chiediamo: come vanno le loro vite una volta lasciata la zona protetta? Ci sono meno tutele, e lì si apre un discorso ancora più complesso".
Interessante il parallelo che può scaturire dalla loro voglia di uscire, in riflesso ad un mondo post-pandemico che spinge le persone a restare sul proprio divano, con la comodità di ricevere tutto a casa, dal cibo ai film. "Penso che i ragazzi della serie morirebbero piuttosto che stare a casa. Questo è stato un lavoro che ti rimette in prospettiva. Entri in un mondo incasinato, ma che pulsa di vita vera. Ti rendi conto che hai davanti persone che vivono, e smaniano dalla voglia di uscire fuori. Per loro, la felicità, è poter disporre del proprio tempo. Hanno un altro sguardo rispetto a noi", dice Giulia Cacchioni a _Movieplayer.it.
La vita dietro le parole
Un'esperienza emotivamente rilevante, ma che ha permesso a Giulia Cacchioni di uscire arricchita dal viaggio, sia dal punto di vista umano che professionale. "Dal punto di vista emotivo e professionale è stato un percorso importante. Mi sono trovata a mio agio. C'era una struttura, ma poi la vita si manifesta come vuole. Il rapporto con i ragazzi ha portato in completa sinergia il mezzo e la persona. Ma è chiaro che quella non è la loro vita al 100%, ma un terreno ibrido dove abbiamo strutturato un dialogo". E sul futuro, le storie di Zona protetta possono averle ispirato una possibile sceneggiatura? "Sì, sicuramente ci sono state delle ispirazioni. La serie potrebbe assumere un altro aspetto, spostandosi verso la finzione, o continuare nella veste di documentario. Ci sono tante storie che pullulano, ci sono conflitti interessanti, e c'è margine di continuare a lavorare in questo senso".