In un prossimo futuro gli androidi sono ormai una realtà, identici in tutto e per tutto agli esseri umani - almeno esternamente - tanto da essere spesso sfruttati come macchine del sesso o per altri usi più o meno illeciti. Colui che ha inventato questa generazione di robot umanoidi è Marlon Veidt, un visionario magnate che ha costruito la propria fortuna grazie al suo progetto, entrato ormai nello status quo di ricchi e facoltosi clienti.
Come vi raccontiamo nella recensione di Zona 414, la convivenza tra gli automi e gli esseri umani è proibita tranne che in un unico posto, la Zona 414 del titolo per l'appunto: lì in un'area delimitata da mura d'acciaio e severamente controllata si agita un sottobosco al quale hanno accesso soltanto le persone più ricche al mondo, libere di dar sfogo a tutte le loro depravazioni. Quando la figlia di Marlon Veidt scompare nel nulla proprio all'interno della zona, l'investigatore privato David Carmichael viene ingaggiato per ritrovarla e condurla a casa sana e salva. Quello che il detective scoprirà con il proseguire delle indagini rischia di rimettere in discussione quanto aveva sempre creduto sulle intelligenze artificiali e la fondamentale presenza della bella Jane, robot senziente che prova emozioni, risulterà determinante per la risoluzione del caso.
Un immaginario consolidato
Tra Blade Runner e 1997: Fuga da New York, con un pizzico di suggestioni new-age e rimandi più o meno vaghi a recenti successi a tema come l'adattamento televisivo de Il mondo dei robot, meglio conosciuto come Westworld. Tutto in Zona 414 sa di derivativo, copia povera e priva di inventiva di opere ormai classiche o cult che hanno fatto la storia di certo cinema di fantascienza, tra declinazioni cyberpunk o atmosfere noir. Novanta minuti di visione che sembrano una sorta di bozza di un contesto in divenire che avrebbe meritato ben maggiore approfondimento e che invece rimane in un docile sottofondo, senza mai (ri)uscire con la necessaria personalità: laddove l'ambientazione è scevra di contenuti, difficile identificarsi con la storia principale e i suoi protagonisti, che diventano così semplici pedine del prevedibile gioco narrativo.
Da Blade Runner ad Alien: Covenant: le intelligenze artificiali al cinema
Il cuore è una macchina
La sceneggiatura d'altronde non fa molto per rendere la vicenda più appassionante, con un numero limitato di personaggi che chiude il cerchio intorno al possibile assassino in maniera abbastanza rozza e scontata, fino a quell'epilogo altrettanto atteso che si rivela l'ennesimo déjà vu. Ed ecco così leggi della robotica che apparentemente non si possono violare, androidi che sviluppano sentimenti umani e un complotto interno proprio ai creatori che castra sul nascere qualsiasi spunto potenzialmente originale. La presenza di robot usati come "carne da macello", quale merce da torturare o violentare o come semplice strumento di piacere non è certo una tematica nuova, come ci hanno insegnato non soltanto alcune delle opere sopra elencate ma anche altri capisaldi recenti del filone - qualcuno ha detto Ex Machina (2014)?, ma basti pensare anche al meno conosciuto The Machine (2013) - e qui la figura di Jane, che prova paura e dolore come nessuno degli altri prototipi, è troppo debole per essere anche convincente.
Un'indagine priva di pathos
Lo stesso si può dire per il tormentato detective di Guy Pearce, in un alter-ego abbandonato ad un background risicato e a dialoghi telefonati, schiavo di una risoluzione degli eventi schematica e priva della corretta suspense, non soltanto a livello emotivo ma anche prettamente di genere, data la quasi pressoché assenza di sequenze d'azione in grado di instillare quel minimo di tensione a tema. E che dire di un Travis Fimmel appositamente invecchiato sotto un trucco grottesco per interpretare il megalomane Marlon? La messa in scena almeno se la cava discretamente, considerando anche il dover fare i conti con un budget limitato e non certo da blockbuster, anche se finisce per affidarsi in gran parte a sequenze in interni e appoggiarsi a una colonna sonora che scimmiotta sonorità futuristiche con invero un certo stile. Il regista Andrew Beird ne viene dal mondo dei videoclip e in questo suo esordio su grande schermo ha cercato di riversare le sue esperienze musicali, dovendo fare però i conti con una realtà ben diversa, che lo ha visto dimostrarsi ancora troppo acerbo per questo passo così importante.
Conclusioni
In un prossimo futuro gli androidi sono indistinguibili dagli esseri umani, al punto di essere sfruttati come oggetti di piacere da sadici milionari, che hanno trovato il loro paradiso nella cosiddetta Zona 414. Quando la figlia del creatore dei robot scompare all'interno dell'area, un detective privato incaricato delle indagini finirà per scoprire delle verità insospettabili, che potrebbero cambiare per sempre lo status quo. Come vi abbiamo raccontato nella recensione di Zona 414, ci troviamo davanti ad uno sci-fi derivativo che guarda in primis alle atmosfere noir di Blade Runner con una spruzzata di Westworld e altri classici a tema, senza mai trovare una via personale per raccontare qualcosa di effettivamente nuovo. Guy Pearce si ritrova nell'ennesimo ruolo sottotono a vagare per una storia ricca di déjà vu, mai capace di intraprendere con la corretta profondità il discorso sulle presunte emozioni delle intelligenze artificiali, con soltanto la discreta messa in scena a rendere meno pesante l'ora e mezzo di visione.
Perché ci piace
- Esteticamente il film se la cava benino, considerando anche il basso budget a disposizione.
Cosa non va
- Un cast sprecato, a cominciare da un Guy Pearce che può dare molto di più e un irriconoscibile Travis Fimmel in un ruolo involontariamente caricaturale.
- Tanti spunti narrativi, spesso derivativi e mai del tutto capaci di esplorare con la corretta profondità le tematiche trattate.