È passato oltre un anno dalla sua presentazione al Festival di Cannes 2019, ma finalmente Matthias & Maxime, ottavo lungometraggio di Xavier Dolan, è arrivato anche in Italia: il film è disponibile infatti sulla piattaforma Mio Cinema e, per i più fortunati, in alcune delle poche sale che hanno riaperto i battenti. Un'intensa storia sull'amicizia, i sentimenti e la ricerca di se stessi e della propria identità, in cui il trentunenne Dolan, oltre a firmare regia e sceneggiatura, torna anche in veste di co-protagonista nei panni del personaggio di Maxime, un ragazzo con un difficile background familiare e in procinto di lasciare il Québec per l'Australia.
Mercoledì sera, in diretta su Mio Cinema, Xavier Dolan è stato al centro di una conversazione in streaming con il critico Fabio Ferzetti per parlare della propria carriera, seguita da un pubblico sempre crescente di appassionati, e della sua nuova pellicola. Davanti al PC con berretto e t-shirt bianca, Dolan ha dato prova dell'irresistibile loquacità che lo contraddistingue da sempre, ha mostrato e citato i numerosi tatuaggi sparsi fra le braccia e le gambe ("Ci sono due citazioni di Jean Cocteau e poi Harry Potter un po' dappertutto") e ha ammesso anche un "errore di gioventù", rispetto al quale oggi ha cambiato totalmente prospettiva...
Dai film d'esordio a Matthias & Maxime
Cosa è cambiato per te in questi mesi di lockdown?
Io sto abbastanza bene, non posso lamentarmi: ho scritto parecchio in questo periodo perché mi sono sentito molto ispirato, e ho ancora voglia di scrivere. Quello che è cambiato per quanto riguarda il cinema è l'incertezza, non sapere quando potremo tornare a girare film senza distanze: è un'incertezza che pesa moltissimo sul mondo dell'arte, sull'industria del cinema e soprattutto sulla distribuzione nelle sale.
Tu hai anche recitato da attore in alcuni dei tuoi film: come decidi quando recitare in prima persona e quando affidare i tuoi personaggi ad altri interpreti?
Ho cominciato a recitare quando avevo solo quattro anni, poi a un certo punto il proverbiale telefono ha smesso di squillare. Da bambino ti abitui subito all'ambiente frenetico e pieno di vita del set, e quando all'improvviso ne vieni privato ci resti molto male. Durante l'adolescenza ho recitato poco, così ho scritto il mio primo film proprio per creare un ruolo apposta per me. Inoltre J'ai tué ma mère era un film molto personale, e ho pensato che solo io avrei potuto interpretare quel ruolo: nessuno avrebbe potuto strapparmelo. I primi film sono stati così: ho iniziato a scrivere e dirigere per poter recitare. Dopodiché, con gli anni, ho smesso di impormi come attore: recito solo quando c'è un ruolo per me. Scrivo perché ho l'urgenza di raccontare delle storie: se posso entrare in queste storie come attore va bene, altrimenti lascio il posto a qualcun altro.
Dunque la tua presenza come attore non è legata necessariamente a un elemento autobiografico?
No, non è più così. Per J'ai tué ma mère volevo recitare e quindi l'ho scritto apposta per esserci come attore, ma ora la situazione è diversa. Mi sono 'scritturato' in Matthias & Maxime perché secondo me andavo bene in quel ruolo. Inoltre avevo una gran voglia di recitare insieme ai miei migliori amici: gli attori di Matthias & Maxime sono i miei migliori amici, non potevo perdermi questa occasione. All'inizio avevo pensato di scritturare qualcun altro per il ruolo di Maxime, ma poi i miei amici mi hanno dissuaso e per fortuna gli ho dato ragione!
Matthias & Maxime, la recensione: il nuovo film di Xavier Dolan è tutto in un bacio mai mostrato
Dal Québec agli Stati Uniti: il flop di John F. Donovan
Matthias & Maxime, come la maggior parte dei tuoi film, è ambientato in Québec e parlato nella lingua franco-canadese tipica di quella regione: quanto è importante la libertà di restare a contatto con le tue radici?
Intanto vi consiglio di guardare il film in versione originale: il québécois è una lingua unica, che si è evoluta moltissimo nel tempo, assorbe varie culture ed è aperta a tutto ciò che la circonda. Ma non sento differenze di libertà in base alla lingua che uso nei miei film: per me la libertà è raccontare le storie che desidero raccontare, la lingua usata non fa differenza. Lavorare con Marion Cotillard è stato come lavorare con un'attrice del Québec: se gli attori mi seguono, io continuo a sentirmi libero.
In un film di Guillaume Canet, Rock'n Roll, sua moglie Marion Cotillard interpreta la parte di se stessa che deve recitare in un film di Xavier Dolan e impazzisce a imparare il québécois: sapevi di questo film o è stata una sorpresa?
Sì, ero al corrente del film, ma mi dispiace di non averlo visto tutto: Guillaume me l'aveva mandato, ma non ho fatto in tempo a finirlo. Però le scene che ho visto erano esilaranti, e ho aiutato Guillaume a scrivere alcune frasi in québécois.
Il tuo primo film in lingua inglese, La mia vita con John F. Donovan, non è stato particolarmente fortunato, nonostante le ottime premesse: pensi di tornare a lavorare negli Stati Uniti o rimarrà un'esperienza unica?
L'importante, come dicevo prima, è che io possa sentirmi libero. Inoltre La mia vita con John F. Donovan non è affatto un film americano: è un film canadese con attori americani ma anche inglesi, girato in varie parti del mondo. Non escludo la possibilità di tornare a lavorare negli Stati Uniti, ma in quel caso vorrei che fosse un film totalmente americano, anche a livello di produzione e distribuzione. Sicuramente mi identifico molto nel ruolo del bambino e molto meno nel ruolo di Donovan: lui è una star, io invece non lo sono allo stesso modo e non vivo quella componente tossica della celebrità.
Avrei voluto approfondire maggiormente tanti aspetti del personaggio di Donovan e della sua malattia; purtroppo abbiamo dovuto tagliare molti elementi che avrebbero potuto rendere il protagonista assai più interessante. Ma se c'è una lezione che ho imparato da questa esperienza è che la prossima volta dovrò esaminare in maniera più attenta e completa la sceneggiatura, perché secondo me i problemi emersi con La mia vita con John F. Donovan sono legati proprio alla sceneggiatura e avrei dovuto risolverli prima.
La mia vita con John F. Donovan: è davvero il "film maledetto" di Xavier Dolan?
Le paure, il coraggio e i rimorsi di Xavier Dolan
Essendo un cineasta così coraggioso, c'è qualcosa che ancora ti fa paura?
Ho paura di tante cose e non mi considero una persona così coraggiosa. Le persone coraggiose oggi sono quelle che negli Stati Uniti scendono in strada e manifestano per difendere i diritti civili. Nei miei film ho cercato di prendere le parti di coloro che sono 'diversi' e di aprire la mente e gli occhi delle persone: se si può definire un gesto coraggioso, da questo punto di vista lo sono. Ma mi spaventa il mondo in cui stiamo vivendo, mi spaventa il futuro del pianeta, mi spaventa la solitudine; mi spaventa l'idea di morire prima di aver raccontato tutte le storie che voglio raccontare e di aver girato tutti i film che voglio girare; mi spaventa pensare di vivere in un mondo in cui il cinema, l'arte e la cultura non siano più considerati cose importanti.
Durante la pandemia abbiamo dovuto fare a meno della cultura e del divertimento, e questo è un mondo in cui non mi piacerebbe vivere; però la mia passione nel fare cinema e nel comunicare con il pubblico è molto più grande delle paure che posso nutrire. Anche perché negli anni ho scoperto di avere un filo diretto con il mio pubblico: molta gente vede i miei film e poi mi scrive, per esempio c'è chi mi racconta di aver ripreso i rapporti con la propria madre. Anche se i miei film non piacciono sempre all'unanimità, anche se non sono sempre dei successi commerciali, però ho il privilegio di avere un contatto diretto con il pubblico, persone che condividono con me le loro emozioni e la loro vita: questa è una cosa fondamentale, soprattutto per il tipo di artista che voglio diventare.
Tempo fa hai contestato la Queer Palm per Laurence Anyways al Festival di Cannes, sostenendo che questo tipo di 'etichette' rischiano di ghettizzare l'omosessualità: la pensi ancora così?
A distanza di tempo, mi dispiace per la polemica nata attorno a quell'evento. Capisco anche da dove veniva la mia reazione, e forse mi sono espresso volgarmente; ma temevo che la Queer Palm scoraggiasse un pubblico più ampio, che non avrebbe voluto vedere un film queer. Oggi non ho più il timore che mi mettano un'etichetta da artista queer: negli anni ho capito che non c'è niente di male in tutto questo. Laurence Anyways era sicuramente un film queer, ma vorrei che tutto il pubblico guardasse film di questo tipo, così come noi persone queer guardiamo e ci siamo appassionati a storie di eterosessuali.
Probabilmente la mia reazione all'epoca era simile alla reazione di tante persone oggi nei confronti di Black Lives Matter: se smettiamo di parlarne, magari il problema non esisterà più. Con gli anni però ho capito che non è vero; all'epoca ero molto giovane e pensavo che parlando di omosessualità avrei finito con l'auto-ghettizzarmi. Tante persone rispondono a Black Lives Matter dicendo All lives matter, tutte le vite contano, non solo quelle dei neri; però soltanto chi appartiene a una minoranza sa che non funziona così, che se smettiamo di parlare dei problemi le cose non cambieranno mai. Quindi oggi penso che la Queer Palm sia importante perché è un premio che riconosce il coraggio della comunità queer, che difende i suoi artisti e i suoi film. Oggi avrei detto delle cose diverse.
È solo la fine del mondo e il cinema di Xavier Dolan: emozioni fra immagini e musica