Sono pochissimi, nel cinema di Hong Kong (cinema di intrattenimento per eccellenza) i registi che si possono definire "autori" nell'accezione occidentale del termine: tra questi, il nome di Wong Kar-Wai è sicuramente quello più noto, l'unico (per ora) che sia riuscito a conquistarsi indistintamente la stima di pubblico e critica occidentali. Un risultato ottenuto grazie al passaggio dei suoi primi film in vari festival e all'impostazione generale del suo cinema, che per quanto profondamente hongkonghese in quanto a materiale di partenza, è esteticamente e concettualmente più vicino ad un gusto "europeo" rispetto a quello della maggior parte dei suoi colleghi.
Più amato all'estero che in patria (dove il suo cinema viene in genere definito "noioso, fatto solo per gli europei"), molto meno prolifico di altri registi hongkonghesi e fautore di un approccio alla regia del tutto originale, Wong è in effetti un cineasta che si è già ritagliato un posto fondamentale nella storia del cinema della ex-colonia britannica e del sud-est asiatico in generale, per quanto si possa discutere sulla sua reale rappresentatività all'interno del panorama cinematografico di cui fa parte. Le costanti tematiche del suo cinema sono rappresentate dall'ossessione/necessità dell'amore, dall'alienazione e dalla solitudine urbana, dalla schiavitù dei ricordi inserita in un contesto urbano "vivo" e pulsante di dolore sotterraneo. Sono comunque degli outsider, i personaggi del cinema di Wong, personaggi in fuga da loro stessi e da amori passati che hanno sempre una "data di scadenza", ma che tuttavia continuano a seguirli come un'ombra dovunque essi vadano: tutto ha una fine, le stagioni della vita passano, gli amori finiscono, eppure la memoria resta costantemente a tormentare l'individuo, a rendere chimerica la speranza di un'esistenza normale. Così, i personaggi di Wong possono affrontare il problema del ricordo con una corsa liberatoria che impedisca al cervello di pensare e al corpo di espellere lacrime (Hong Kong Express), con un siero magico che cancelli la memoria (Ashes of time), con un pianto sommesso nel microfono di un registratore (Happy together), sussurrando un segreto nelle mura di un tempio (In the mood for love) o creando un ipotetico universo in cui nulla cambia o viene dimenticato (2046). L'angoscia esistenziale che accomuna questi personaggi, l'ossessione della memoria che li incatena, il loro mal di vivere e di amare, sono espressi in ogni film in modo diverso, con modalità estetiche che variano molto pur dovendo rappresentare sostanzialmente gli stessi concetti: così, se in Hong Kong Express e nella sua ideale prosecuzione Angeli perduti è il tessuto urbano di una Hong Kong di fine millennio, notturna, caotica e trasfigurata, a fare da teatro alle gesta dei protagonisti, in Days of being wild e In the mood for love le lancette del tempo si spostano indietro, a quegli anni '60 (a loro volta luogo della memoria per il regista) in cui troviamo una città dalla facciata ben diversa, colorata di luci soffuse e bagnata da una costante pioggia a simboleggiare un'angoscia e una sofferenza trattenute, mai esplicitate o esplicitate con modalità nichilistiche e senza speranza (come fanno Leslie Cheung in Days of being wild e un indurito Tony Leung Chiu Wai in 2046). Persino il deserto che circonda la locanda di Leslie Cheung in Ashes of time, fondamentale incursione da parte dell'autore nel wuxiapian (il film di cavalieri erranti di Hong Kong), diventa luogo ideale in cui far deflagrare ossessioni, rimpianti, identità cancellate o sovrapposte che danno luogo a scontri che sono mentali prima che fisici. Una varietà di registri a cui, di volta in volta, si adatta perfettamente la fotografia, dal secondo film in poi curata da Christopher Doyle, un nome ormai fondamentale per tutto il cinema del sud-est asiatico contemporaneo.
E' in effetti solo un nome, quello di Doyle, all'interno di quello che è ormai un vero e proprio team di lavoro, che segue il regista praticamente ad ogni film: tra i nomi che ne fanno parte troviamo quello del montatore/scenografo William Chang, del direttore di produzione Jacky Pang, degli attori Tony Leung, Maggie Cheung e del compianto Leslie Cheung. Una squadra che condivide la singolare metodologia di lavoro di Wong, che dal suo secondo film ha rinunciato al processo di scrittura cinematografica "classica" in favore di una sorta di work-in-progress che, partendo da pochi elementi di base (parti di storia, caratteri di personaggi, situazioni, atmosfere, frammenti di musica), lascia che il materiale prenda forma da sé, man mano che le riprese suggeriscono al regista la direzione da intraprendere. Il risultato è sempre qualcosa di estremamente personale, che anche quando parte da generi ben codificati (il noir nel film d'esordio As tears go by, il wuxiapian nel già citato Ashes of time), finisce per piegare questi ultimi alle esigenze espressive del regista e alla sua poetica, con un totale controllo sulla materia trattata che ha eguali solo nel lavoro di un gigante del cinema come Stanley Kubrick. Un paragone che potrà forse apparire prematuro (la carriera di Wong, ringraziando il Dio del cinema, è tutt'altro che finita), ma che, a parere di chi scrive, è tutt'altro che azzardato per un regista il cui cinema appare, in questo inizio millennio in cui il concetto di memoria (cinematografica e non) sembra perdere costantemente valore, più che mai necessario.